Benvenuti a Favazzinablog

Finalmente, dopo anni che ho in mente di farlo, ho deciso di aprire questo piccolo blog su Favazzina. L'obiettivo è quello di creare una comunità virtuale delle varie persone che negli anni hanno preso parte alla vita della nostra mitica Favazzina in modo che, almeno attraverso internet, possano sentirsi e non perdere i contatti, ma anche quello di scrivere e non dimenticare le varie storie che per tante estati ci hanno fatto morire dalle risate.
Se vi va di partecipare potete contattarmi su skype (mauro.fuca) o scrivere un commento anonimo al blog (scrivete in ogni caso la vostra email) così vi faccio diventare autori del blog e potrete darmi una mano.
Salutamu!
UGRECU

mercoledì 28 ottobre 2015

Ciao Paolo

Ieri sentendo u Longu per telefono ho saputo che è morto Paolo Polifrone, noto per tutti noi che lo conoscevamo bene e in modo affettuoso, come Paulu Cagna.
Con lui se ne va un uomo mite, un amico e anche un lavoratore infaticabile, uno degli ultimi contadini che erano ancora rimasti, un altro pezzo della Favazzina che quelli della mia età ricordano con nostalgia.
Me lo ricordo quando faceva il parmentaro, correre per i vicoli del paese trasportando i barili pieni di mosto sulle spalle o quando scendeva dalla vigna con la sciunetta sulla spalla, oppure quando andava a mbivirari con gli stivali di gomma ai piedi e u zappuni in mano.
Quest’estate, quando alla mattina presto uscivo di casa per recami alla vigna, lo incontravo che già ritornava dalla sua, madido di sudore con una cufinetta sulle spalle e un panaro in mano.
“Paolo dai che ti aiuto” gli dicevo,
“No, no, grazie ormai sono arrivato” mi rispondeva, e trotterellando sulle gambe malferme scompariva dentro il vicolo.
Al pomeriggio ci incontravamo sul muretto vicino alla chiesa e rimanevamo lì a chiacchierare. Spesso gli chiedevo di parlami di com’era Favazzina ai suoi tempi e lui non si faceva pregare ed esaudiva con piacere tutte le mie domande.
Poi quando arrivavano altri amici il discorso cadeva inevitabilmente sul Milan, la sua squadra del cuore, e finiva sempre per incazzarsi con Galliani “du strunzu”, l’unico responsabile, secondo lui, se il Milan in questi ultimi anni andava male.
So che si è sentito male alla vigna, dove mille volte i suoi gli avevano detto di non andare, la stessa cosa che anch’io in più di una occasione gli avevo consigliato.
“Ma chi cazzu rici Micu, finu a chi aiu forza a vigna nci vaiu”
D’altronde ad un contadino di vecchio stampo come lui come potevi impedirgli di non andare alla vigna?Per certi versi mi ricordava mio padre.
Ero molto affezionato a Paolo e sono molto dispiaciuto per la sua morte, mi mancherà non vederlo seduto sul muretto ad aspettarmi o davanti casa sua a sonnecchiare o a leggere il giornale, mi mancherà davvero.
Ciao Paolo

mercoledì 17 dicembre 2014

Il canto del vento

Canta il vento
tra gli ulivi e i carrubi,
canta tra gli aranci
e pale di fichidindia.
I bambini,
nel meriggio infuocato,
giocano annoiati
e seguono con occhi inquieti,
figure leggere di donne
che raccontano, mai stanche,
favole e storie antiche
della nostra terra
dove il cielo è avaro di acque.
Scuote il vento
le alte cime dei carrubi
e piegano gli ulivi i loro rami,
fino a terra.
I bambini,
candidi e innocenti,
si rincorrono tra gli alberi
e creano allegri nuovi giochi.
Canta, ardente, il vento
tra gli ulivi e i carrubi,
canta tra gli aranci
e pale di fichidindia.

giovedì 17 aprile 2014

Ricordi d'estate

Sta calando la sera e sono seduto sulla spiaggia di Favazzina ad ammirare il tramonto.
Le tamerici nel piazzale del metanodotto sono immobili, così come gli oleandri.
Vi è un silenzio profondo turbato solo da una leggera brezza che increspa leggermente il mare.
E un vecchio romantico come me, ancora si commuove davanti allo stupendo spettacolo che la natura sa offrire e si lascia sopraffare dalle emozioni.


Le voci del vento

L’orizzonte inghiotte
gli ultimi bagliori del tramonto
e lame di luce color rame,
avvolgono in un sudario vaporoso,
la campagna addormentata
e i dolci pendii dei monti
e rendono quasi irreale la sera.
Un brivido attraversa l’aria
e il cielo di un azzurro intenso,
tristemente si oscura,
si fa cupo.
E nel crepuscolo morente,
le tamerici salmastre
e gli oleandri, fragranti di sole,
allungano sempre più le ombre.
E’ l’ora questa dell’oblio e dei silenzi
e tutto tace come per incanto.
E in questa quiete,
nel silenzio assordante che mi circonda,
si ode, nella notte che scende,
serena e scintillante di stelle,
il sussurro delle voci del vento.
Solo sospiri, bisbigli, una debole eco
che accarezzano e dolcemente cullano
la mia anima ….
abbandonata, abbandonata e stanca.

sabato 28 dicembre 2013

Il tunnel
di Friedrich Dürrenmatt


 
Un ventiquattrenne, grasso per tenere a distanza quanto di spaventoso accade dietro le quinte (e che vedeva: era una sua dote, forse l'unica), che amava turare i buchi della sua carne proprio perché attraverso quelli poteva irrompere l’orrore, nel senso che fumava sigari (Ormond Brasil 10) e portava, in aggiunta ai suoi, anche un secondo paio d'occhiali da sole, e batuffoli di ovatta nelle orecchie: questo giovanotto, dipendente ancora dai genitori e alle prese con vaghi studi all'università che si poteva raggiungere in due ore di viaggio in ferrovia, salì una domenica pomeriggio sul solito treno, partenza alle diciassette e cinquanta, arrivo alle diciannove e ventisette, per seguire il giorno seguente un seminario che aveva già deciso di marinare. Il sole splendeva in un cielo senza nuvole quando lasciò la località dove abitava. Era estate. II treno doveva seguire un tracciato fra le Alpi e il Giura, passando accanto a ricchi villaggi e a piccole città, più oltre lungo un fiume, per tuffarsi poi, dopo neanche venti minuti di viaggio, proprio dopo Burgdorf, in una breve galleria. Il treno era sovraffollato. Il ventiquattrenne era salito in cima al convoglio e s’era fatto faticosamente largo verso la coda, sudando e dando l'impressione d'essere vagamente scimunito. I viaggiatori stavano seduti stretti l'uno a ridosso dell'altro, molti sulle valige, anche gli scompartimenti di seconda classe erano occupati, solo la prima classe era poco affollata. Quand'ebbe finito di lottare in mezzo alla confusione di famiglie, reclute, studenti, coppiette, cadendo ora addosso all’uno e ora all'altro, sballottato qui e là dal treno, barcollando contro vetri e petti, il giovanotto trovò posto nell'ultimo vagone, e anzi in quel settore di terza classe - dove ci sono solitamente solo rare vetture a scompartimenti - trovò una panca intera tutta per sé: nell'ambiente chiuso stava seduto davanti a lui un uomo ancor più corpulento che giocava a scacchi con se stesso, e nell’angolo dello stesso sedile, verso il corridoio, c'era una ragazza dai capelli rossi che leggeva un romanzo. S’era dunque già sistemato accanto al finestrino e aveva acceso un Ormond Brasil 10, quando venne la galleria, che gli parve durare più a lungo del solito. Aveva percorso più volte quel tratto, da un anno quasi ogni sabato e domenica, e non aveva in realtà mai fatto caso, se non di sfuggita, alla galleria. Talvolta, sì, avrebbe voluto riservarle piena attenzione, ma poi, ogni volta al suo sopraggiungere, aveva sempre pensato ad altro, e non aveva fatto caso a quel breve tuffo nel buio perché quando sollevava lo sguardo deciso a osservarla, la galleria era già passata, così rapidamente l’attraversava il treno e così breve era il piccolo tunnel. Anche in quella circostanza dunque non s'era nemmeno tolto gli occhiali da sole quando vi entrarono, perché non stava pensando alla galleria. Appena prima splendeva ancora con pieno vigore il sole e il paesaggio che stavano attraversando (le colline e i boschi, la lontana catena del Giura e le case della cittadina) era come d’oro, e tanto lo si era visto brillare alla luce della sera, che ora divenne consapevole d'un colpo del subentrare improvviso dell'oscurità della galleria, e fu questa certo anche la ragione per cui l'attraversamento gli parve più lungo. C’era buio assoluto nello scompartimento, le luci non erano state accese a causa della brevità del tunnel, da un secondo all'altro doveva profilarsi sul finestrino il primo vago riflesso del giorno, estendersi poi fulmineo e irrompere infine violentemente con tutto il suo dorato fulgore; poiché tuttavia l'oscurità persisteva, si tolse gli occhiali da sole. In quell'attimo la ragazza si accese una sigaretta, evidentemente seccata - come gli parve di notare al rossastro incendiarsi del fiammifero - perché non poteva continuare a leggere il suo romanzo; l'orologio dalle cifre fluorescenti che aveva al polso indicava le sei e dieci minuti. Si appoggiò nell'angolo fra la parete dello scompartimento e il finestrino, e rifletté sui suoi studi confusi ai quali nessuno credeva veramente, sul seminario cui avrebbe dovuto partecipare l'indomani e che non avrebbe invece frequentato (tutto quello che faceva era solo un pretesto per giungere, al di là della facciata di quel suo affaccendarsi, a un ordine; non tanto all'ordine in sé, quanto alla parvenza di un ordine rispetto all'orrore contro cui s'imbottiva di grasso, s'infìlava sigari in bocca e batuffoli d'ovatta nelle orecchie), e quando tornò a guardare il quadrante erano le sei e un quarto e c’era ancora la galleria. Ne fu sconcertato. Ora le lampadine erano accese, certo, c’era luce nello scompartimento, la ragazza rossa poteva continuare a leggere il suo romanzo, il signore grasso giocava di nuovo a scacchi con se stesso, però fuori, al di là del finestrino in cui si rispecchiava ora tutto lo scompartimento, c'era ancora la galleria. Uscì nel corridoio dove un uomo alto con un impermeabile chiaro camminava su e giù, con una sciarpa nera al collo. A cosa gli servirà poi con questo tempo, pensò, e guardò negli altri scompartimenti del vagone, dove c’era gente che leggeva giornali e chiacchierava. Tornò al suo angolo e si sedette, ormai il tunnel doveva finire da un momento ali'altro; l'orologio da polso segnava ormai quasi le sei e venti; s'irritò d'aver fatto così poco caso alla galleria in precedenza, si protraeva ormai da un quarto d’ora e, dal momento che il treno viaggiava palesemente a massima velocità, doveva essere una galleria importante, uno dei tunnel più lunghi della Svizzera. Dunque era probabile che fosse salito sul treno sbagliato, anche se sul momento non riusciva a ricordare che a venti minuti di ferrovia dalla località dove abitava esistesse un tunnel così lungo e importante. Chiese allora al grasso giocatore di scacchi se quel treno andava a Zurigo, e quello confermò. Non sapeva che quel tratto comprendesse una galleria così ragguardevole, insistette il giovanotto, e il giocatore di scacchi, un po' irritato per essere interrotto una seconda volta in una qualche difficile riflessione, rispose che in Svizzera c'erano appunto tante gallerie, moltissime gallerie, lui era la prima volta che viaggiava in quel paese, d'accordo, ma ci si faceva caso subito, aveva anche letto in un annuario statistico che nessun paese aveva tante gallerie come la Svizzera. E poi lo pregò di scusarlo, gli dispiaceva terribilmente, ma era alle prese con un importante problema connesso alla difesa Nimzowitsch e non voleva più essere distratto. Il giocatore di scacchi aveva risposto con cortesia ma anche con fermezza; e il giovanotto capì che non era il caso d'aspettarsi altre delucidazioni da lui. Del resto era persuaso che il suo biglietto sarebbe stato contestato, e continuò a crederlo, talmente convinto com’era d’essere salito sul treno sbagliato, anche quando il controllore - un uomo pallido, magro, d’aspetto nervoso - fece notare alla ragazza cui per prima aveva preso il biglietto, che avrebbe dovuto cambiare treno a Olten. Mi toccherà certo pagare la differenza, lui era diretto a Zurigo, disse poi, senza togliersi l'Ormond Brasil 10 di bocca, nel porgere il biglietto al controllore. "Il signore è sul treno giusto," ribattè quello dopo aver verificato il biglietto. "Ma se stiamo viaggiando in un tunnel!" esclamò con irruenza il giovanotto, irritato e deciso a questo punto a chiarire la sconcertante situazione. Siamo appena passati vicino al lago di Herzogenbuch e ci stiamo avvicinando a Langenthal, disse il controllore. "Giusto, signore, e sono le sei e venti." Ma erano venti minuti che viaggiavano in galleria, ribadì il giovanotto, insistendo su quella constatazione. Il controllore lo fissò senza capire. "Questo è il treno per Zurigo," disse, e guardò anche lui verso il finestrino. "Le sei e venti," ripeté, ora un po' inquieto in apparenza, "fra poco saremo a Olten, arrivo alle diciotto e trentasette. Si sarà fatto brutto il tempo, d'improvviso, ed ecco spiegata l’oscurità; un temporale forse, sì, sarà per questo." "Sciocchezze," s'intromise a questo punto nel dialogo i'uomo alle prese con un problema connesso alla difesa Nimzowitsch, seccato perché continuava ancora a reggere il biglietto senza che il controllore gli badasse. "Sciocchezze, stiamo viaggiando in galleria. Si vede benissimo la roccia, granito mi sembra. In Svizzera c'è il maggior numero di gallerie del mondo. L'ho letto su un qualche annuario statistico." Il controllore, prendendo finalmente il biglietto del giocatore di scacchi, assicurò ancora, quasi implorante, che quel treno era diretto a Zurigo, al che il ventiquattrenne chiese del capotreno. Era in testa al convoglio, disse il controllore, ma restava il dato di fatto che quel treno era diretto a Zurigo, erano le sei e venticinque e fra dodici minuti, secondo l'orario estivo, si sarebbe fermato a Olten, lui viaggiava su quel treno tre volte ogni settimana. Il giovanotto s'incamminò. Procedere nel treno stracolmo gli risultò ancor più difficile di prima quando aveva fatto lo stesso tragitto in direzione opposta; il treno doveva viaggiare a una velocità straordinaria; anche il fragore che faceva era spaventoso, e così tornò a infilarsi nelle orecchie i batuffoli d ovatta che aveva tolto quando era salito sul treno. La gente accanto cui passava si comportava tranquillamente, quel treno non aveva niente di diverso dagli altri treni su cui aveva viaggiato nei pomeriggi domenicali, e non notò nessuno particolarmente preoccupato. In una carrozza con scompartimenti di seconda classe c’era un inglese accanto a un finestrino in corridoio, e picchiettava raggiante sul vetro la pipa che stava fumando. "Il Sempione," disse. Anche nel vagone ristorante tutto era come al solito, benché non ci fosse un posto libero e la galleria dovesse pur essere stata notata da qualcuno dei viaggiatori o dei camerieri che servivano bistecche impanate e riso. Il giovanotto rintracciò il capotreno, riconoscendolo dalla borsa rossa, all'uscita del vagone ristorante. "Desidera?" chiese il capotreno, un uomo grande e placido, dai baffi neri assai curati e occhiali senza montatura. "Sono venticinque minuti che siamo in galleria," disse il giovanotto. Il capotreno non guardò verso il finestrino come il ventiquattrenne s’era aspettato, e si volse invece al barista. "Mi dia una scatola di Ormond 10," disse, "fumo sigari della stessa marca di questo signore;" però il barista non poté accontentarlo perché non aveva quel tipo di sigari, e il giovanotto, contento d'aver trovato uno spunto, offrì un Brasil al capotreno. "Grazie," disse quello, "probabilmente a Olten non avrò tempo di procurarmene, e quindi mi fa proprio un grande favore. È importante fumare. Posso ora chiederle di seguirmi?" Condusse il ventiquattrenne nel bagagliaio situato prima del vagone ristorante. "Più in là non c'è che la locomotiva," disse il capotreno quando entrarono in quell'ambiente, "siamo in testa al treno." Nel bagagliaio era accesa una debole luce gialla, la maggior parte del vagone era immersa nel buio, le porte laterali erano chiuse, l’oscurità della galleria traspariva solo attraverso una piccola finestra munita di sbarre. Attorno c’erano delle valige, molte cosparse d'etichette d'alberghi, alcune biciclette e una carrozzella per bambini. Il capotreno appese la borsa rossa a un gancio. "Cosa desidera?" chiese di nuovo, senza però guardare il giovanotto e cominciando invece a compilare tabelle su un quaderno che aveva tolto dalla borsa. "È da Burgdorf che siamo in galleria," rispose il ventiquattrenne, risoluto, "su questo tratto non esiste un tunnel del genere, lo faccio ogni settimana nei due sensi, io conosco questo percorso." Il capotreno continuò a scrivere. "Signore mio," disse infine e si accostò al giovanotto tanto che i due corpi si sfioravano, "signor mio, non so che dirle. Non capisco come siamo capitati in questo tunnel, non so darmi una spiegazione. Però la prego di considerare; noi ci stiamo muovendo su binari e quindi la galleria deve portare da qualche parte. Nulla sta a dimostrare che ci sia qualcosa di sbagliato in questo tunnel, a parte il fatto, naturalmente, che non finisce." Il capotreno - l'Ormond Brasil non ancora acceso fra le labbra - aveva parlato con tono molto basso, eppure con tale dignità e con tanta chiarezza e precisione, da fargli sentire ogni parola nonostante i batuffoli d'ovatta e benché nel bagagliaio il fragore del treno fosse molto più intenso che nel vagone ristorante. "E allora la prego di fermare il treno," pretese il giovanotto spazientito, "non capisco il senso di quanto mi dice. Se c'è qualcosa che non va in questo tunnel, la cui esistenza lei stesso non sa spiegarsi, è suo dovere e fermare il treno." "Fermare il treno?" rispose l’altro lentamente, certo, ci aveva pensato anche lui; chiuse il quaderno e tornò a infilarlo nella borsa rossa che oscillava sul gancio, quindi si accese con cura l'Ormond. Forse era il caso di tirare il freno d'emergenza, disse il giovanotto, e stava per afferrare la maniglia del freno che era sopra la sua testa, ma in quello stesso istante barcollò in avanti e andò a sbattere contro la parete. Una carrozzella per bambini gli rotolò addosso, le valige gli scivolarono più vicine; stranamente vacillando, anche il capotreno avanzò a mani protese attraverso il bagagliaio. "Stiamo viaggiando in discesa," disse il capotreno e si appoggiò accanto al ventiquattrenne alla parete anteriore del vagone, ma l’atteso impatto del treno in corsa contro la roccia, lo sfracellarsi e il conficcarsi dei vagoni l’uno nell'altro non avvenne, la galleria pareva invece di nuovo scorrere in pianura. La porta si aprì all'altro capo della vettura. Alla luce viva del vagone ristorante c’era gente che brindava, poi la porta tornò a chiudersi. "Venga sulla locomotiva," disse il capotreno, e guardò il ventiquattrenne diritto negli occhi, pensieroso e, come d'un tratto parve, anche minaccioso, poi aprì la porta accanto alla quale s'erano appoggiati alla parete: allora una corrente d'aria calda e impetuosa li investì con una violenza tale da farli barcollare di nuovo contro la parete, spinti dall'impatto dell'uragano; contemporaneamente il bagagliaio si riempì d'un fragore terribile. "Dobbiamo arrampicarci sulla locomotiva," gridò il capotreno all'orecchio del giovanotto e la sua voce risultò anche così quasi impercettibile, poi sparì nel riquadro della porta spalancata attraverso la quale si scorgevano i vetri vivamente illuminati, oscillanti, della locomotiva. Il ventiquattrenne lo seguì risoluto, anche se gli sfuggiva il senso di quell'arrampicata. La piattaforma su cui mise piede aveva su entrambi i lati una ringhiera metallica alla quale si aggrappò, spaventato non tanto per la tremenda corrente d'aria, che s'attenuò anzi quando il giovanotto si accostò alla macchina, quanto per l'immediata vicinanza delle pareti del tunnel, che non vedeva, dovendosi concentrare tutto sulla macchina, e che pure intuiva, scosso dallo stantuffare delle ruote e dal fischiare dell'aria, con la sensazione di filare a una velocità astronomica in un mondo di pietra. Tutt ‘attorno alla locomotiva c’era una stretta passerella sovrastata da una sbarra che seguiva, sempre alla stessa altezza rispetto alla passerella, i contorni della macchina: ecco, quella doveva essere la strada da seguire; calcolò di dover fare un salto della lunghezza d'un metro. E così riuscì anche lui ad afferrare la sbarra. Avanzò lungo la passerella, premuto contro la locomotiva; e il tragitto si fece terribile solo quando pervenne sul lato più lungo della macchina, ora completamente esposto all'impatto dell’uragano urlante e delle minacciose pareti rocciose che, illuminate vivamente dalla locomotiva, gli schizzavano incontro. Lo salvò il gesto del capotreno che l'attirò, attraverso una porticina, all'interno del locomotore. Esausto, il giovanotto si appoggiò contro le strutture della macchina, e d'un tratto ci fu silenzio perché, quando il capotreno ebbe chiusa la porta, le pareti d’acciaio del gigantesco locomotore attutirono il fragore al punto da renderlo quasi impercettibile. "E così abbiamo perduto anche l'Ormond Brasil," disse il capotreno. "Non è stato intelligente da parte mia accenderlo prima di arrampicarmi, però, con quella forma affusolata che hanno, si spezzano facilmente se non si ha una scatola in cui riporli." II giovanotto fu contento d'essere distratto dalla minacciosa vicinanza delle pareti rocciose da qualcosa che lo richiamava a quella vita d'ogni giorno in cui si trovava meno di mezzora prima, a tutti quei giorni e anni sempre uguali (sempre uguali perché era vissuto solo nell'attesa del momento che aveva ora raggiunto, del momento del crollo, del cedimento improvviso della superficie della terra, del fantastico precipitare verso l'interno della terra). Tolse dalla tasca destra della giacca uno degli astucci bruni e offrì un altro sigaro al capotreno, infilandosene egli stesso uno in bocca, e si accostarono quindi entrambi con attenzione al fuoco che il capotreno offriva. "Apprezzo molto questi Ormond," disse il capotreno, "ma bisogna aspirare bene, altrimenti si spengono," parole che resero diffidente il ventiquattrenne, perché si rese conto che nemmeno il capotreno pensava volentieri al tunnel che, là fuori, continuava ancora (ma c’era ancora la possibilità che cessasse d'un tratto, come a volte cessa all'improvviso un sogno). "Le diciotto e quaranta," disse guardando il quadrante luminoso del suo orologio, "a quest'ora dovremmo essere già a Olten," e ripensò intanto alle colline e ai boschi che pure aveva visto fino a poco prima, soffusi d'oro al tramontare del sole. Rimasero lì a fumare, appoggiati alla parete della sala macchine. "Il mio nome è Keller," disse il capotreno, aspirando il suo Brasil. Il giovanotto non si arrese. "Arrampicarsi sulla locomotiva è stato rischioso," osservò, "almeno per me che non sono abituato a far cose simili, e quindi vorrei proprio sapere a che scopo mi ha condotto qui." Non lo sapeva, rispose Keller, aveva solo voluto guadagnar tempo per riflettere. "Tempo per riflettere," ripeté il ventiquattrenne. "Sì," disse il capotreno, proprio così, e continuò a fumare. Pareva che la locomotiva s'inclinasse di nuovo in avanti. "Potremmo entrare nella cabina di guida," propose Keller, ma rimase fermo accanto alla parete della macchina, indeciso, al che il giovanotto s'avviò lungo il corridoio. Quand'ebbe aperta la porta d accesso alla cabina di guida, si fermò. "Vuota," disse al capotreno che ora si stava a sua volta avvicinando, "il posto del conduttore è vuoto." Entrarono nella cabina, barcollando per la tremenda velocità con cui la locomotiva continuava a sfrecciare nel tunnel trascinando con sé il treno. "Prego," disse il capotreno, e abbassò alcune leve, tirò il freno d'emergenza. La locomotiva non reagì. Avevano fatto di tutto per fermarla non appena aveva notato il cambiamento di percorso, assicurò Keller, ma la locomotiva aveva continuato a correre. "E continuerà a correre ancora," rispose il ventiquattrenne, mostrando l'indicatore di velocità. "Centocinquanta. Questa macchina è mai andata a centocinquanta?" "Centocinque ai massimo," rispose il capotreno. "Appunto," constatò il giovanotto. "Appunto. La velocità aumenta. Ora l'indicatore segna centocinquantotto. Stiamo precipitando." Si avvicinò al finestrino, ma non riuscì a mantenersi in piedi e andò a finire con la faccia contro la lastra di vetro, tanto era ora fantastica la velocità. "E il conduttore della locomotiva?" gridò e guardò le masse di roccia che gli si avventavano addosso alla violenta luce dei fari, sopra di lui, sotto di lui, e sparivano ai due lati della cabina di guida. "È saltato giù," urlò di rimando Keller che sedeva ora sul pavimento, con le spalle appoggiate al quadro di manovra. "Quando?" chiese il ventiquattrenne, ostinato. Il capotreno esitò un attimo e dovette riaccendersi l'Ormond, le gambe alla stessa altezza della testa perché il treno s'inclinava sempre di più. "Dopo cinque minuti," disse poi. "Non avrebbe avuto senso tentare un’operazione di salvataggio. Anche l'addetto al bagagliaio è saltato giù." "E lei?" chiese il ventiquattrenne. "Io sono il capotreno," rispose l'altro, "e poi sono sempre vissuto senza speranza." "Senza speranza," ripeté il giovanotto, disteso ora al riparo della lastra di vetro del posto di manovra, il volto premuto sull'abisso. "Noi stavamo seduti nei nostri scompartimenti e non sapevamo che tutto era già perduto," pensò. "In apparenza niente era ancora cambiato, eppure la realtà del precipitare verso l'abisso ci aveva già accolti." A quel punto doveva tornare indietro, gridò il capotreno, "nei vagoni sarà già scoppiato il panico. S'ammasseranno tutti in coda al treno." "Certo," rispose il ventiquattrenne e pensò al grasso giocatore di scacchi e alla ragazza col romanzo e i capelli rossi." Allungò al capotreno gli astucci di Ormond Brasil 10 che gli rimanevano. "Prenda," disse, "nell'arrampicarsi di là finirà col perdere di nuovo il suo Brasil." E lui, non tornava indietro, chiese il capotreno che si era rialzato e cominciava a risalire faticosamente l'imbuto del corridoio. Il giovanotto guardò gli strumenti senza senso, quelle leve ridicole e gli interruttori che lo circondavano argentei nella luce abbagliante della cabina. "Duecentodieci," disse. "Non credo che con questa velocità ce la farà a risalire nel vagone che è sopra di noi." "È mio dovere," gridò il capotreno. "Certo," rispose il ventiquattrenne, senza volgere il capo verso la sconsiderata impresa del capotreno. "Quanto meno devo tentare," gridò ancora una volta il capotreno, ormai su in alto nel corridoio, puntellandosi con cosce e gomiti contro le pareti metalliche, però quando la macchina s'inclinò maggiormente - per correre ora, spaventosamente precipitando, verso il centro della terra, e il capotreno si trovò appeso nell'imbuto direttamente sopra il ventiquattrenne disteso in fondo alla locomotiva, sull'argenteo finestrino della cabina di guida, faccia all'ingiù - le forze gli mancarono. Il capotreno cadde sul quadro di manovra e si trovò coperto di sangue, disteso accanto al giovanotto, aggrappato alle sue spalle. "Cosa possiamo fare?" gridò il capotreno nel fragore delle pareti del tunnel che schizzavano loro incontro, all'orecchio dell'altro che era premuto immobile, col corpo grasso diventato inutile perché non offriva più protezione alcuna, contro il vetro del posto di guida, e assorbiva per la prima volta a occhi bene aperti l'abisso che era sotto di lui. "Cosa possiamo fare," gridò il capotreno ancora una volta, e il ventiquattrenne, senza distogliere lo sguardo dallo spettacolo, e mentre a causa della tremenda corrente d'aria volavano nell'imbuto su di lui i batuffoli d ovatta, rispose con una spettrale serenità: "Niente." (1952/1978)
 

mercoledì 27 novembre 2013

Il tunnel

Cari Velardi che ne dite stiamo entrando o siamo fuori dal tunnel?


giovedì 21 novembre 2013

"Completo il ricordo del ragioniere Franco C., amico di vecchia data, cliente assiduo del lido, grigliate e karaoke compresi, e in fondo favazzinese di adozione, con una sua immagine recente a beneficio di quanti l'hanno conosciuto frequentando il nostro amato borgo d'estate e magari, leggendo il post precedente, non hanno potuto collegare la descrizione alla persona.
Gli sia lieve la terra."



giovedì 7 novembre 2013

Addio, Mitico Ragioniere.

Ai più verrà in mente una presenza sfumata, indistinta, di contorno. Un personaggio secondario che, a teatro, entra in scena in punta di piedi quando la rappresentazione è già entrata nel vivo e il protagonista ha ormai catalizzato l’attenzione degli spettatori. Molti forse lo ricorderanno per le epiche sfide a tressette e briscola sotto il cannizzo infuocato del lido o ai tavoli del chiosco in piazza nelle interminabili serate d’estate condite da angurie a pezzetti e tropical ghiacciati, inframmezzate dai suoi: “Demente, ma è possibile che sbagli sempre quando giochi con me?” Qualcuno, fraintendendo, potrà averlo scambiato per il nonno di Marta, ma no forse è il prozio di Giò, deve essere il trisavolo dimenticato in soffitta, a mia mi pari chi ssumigghia precisu a bonanima ru zi ntoni e così via discorrendo. Eppure sotto l’apparente scorza di burbero, a volte testardamente polemico, si nascondeva invece un’indole gentile, una naturale bonomia nella parola e nel gesto, un’infinita saggezza distillata con parsimonia per non urtare la suscettibilità altrui che facevano di lui l’elemento che aggrega, il collante che unisce, la trama che sostiene, il giusto verso che fa andare ogni cosa al suo posto. Franco era come il sale senza il quale anche la pietanza migliore non ha sapore, come il basso in un brano rock che se non ci fosse sembrerebbe di ascoltare un’orchestrina di liscio, come il bullone che assembla insieme i pezzi senza di che ogni componente si perderebbe per i fatti suoi. A tutti noi che abbiamo conosciuto il suo sorriso disincantato, le sue uscite sorprendentemente concilianti, i suoi modi da discreto gentiluomo attempato, il suo humour intellettuale, il suo essere mai sopra le righe, resterà il ricordo indelebile di una bella, breve stagione troppo intensa per poter essere dimenticata e un senso di vuoto troppo grande per poter essere colmato. Da parte di Nino C. ricevo e volentieri pubblico questo post.

venerdì 18 ottobre 2013

La donna nella vendemmia

Calzavano scarpe di suola dura. Purtavunu cofani i racina supra a testa, meglio di Salimi (campione mondiale di sollevamento pesi), senza dubbio
Erano fimmini, donne semplici, nessuno era più costante di loro. Avevano un collo forte ed elegante chi parivunu le gemelle Kessler.
Armati di coraggio ed equilibrio, pirchì curaggiu ed equilibrio nci voli mi si nchiana e scindi ri scaluni  ra vigna cu quaranta chili supra a testa. Si prestavano per tutte le vendemmie ru paisi. Si, tutti se le ricordano bene "i fimmini cu cofanu in testa". Sudate, stanche e cu na curuna i stoffa nte mani.
Salivano e scendevano fino sfinirsi. Persino Salimi ha dovuto ammettere che erano più forte di lui. Ma non poteva durare, anche loro, come le vigne si estinsero.

mercoledì 9 ottobre 2013

Proverbi - La vigna, la vendemmia, il vino

A butti si sparagna quandu é chjina, quandu é vacanti si sparagna sula.
Si risparmia il vino della botte quando è ancora piena, quando è vuota sarà troppo tardi.

A ggutti a ggutti si sbacanta a bùtti.
Goccia a goccia si finisce il contenuto della botte.

Aja e parmentu, omani centu.
Nell’ aia e nel palmento devono lavorare molti uomini.

A santu Martinu caccia ll'acqua e menti 'u vinu.
A San Martino metti da parte l'acqua e bevi il vino nuovo

A santu Martinu 'u fravuledu è vinu.
Per S. Martino il fragolino è maturo.

A tempu i racina e ficu, non c'è né cumpari e né amicu.
In tempi di raccolta non c'è compare né amico.

A vigna è tigna.
La vigna è difficile da governare.

Cu havi na bona vigna havi pani, vinu e ligna.
Chi ha una buona vigna, ha pane, vino e legna.

Cu’ simina ‘nta vigna, non meti e non ‘vindigna.
Chi semina nella vigna, non miete e non vendemmia.

Cu zzappa, zzappa a so vigna, bona sa zzappa e bona sa vindigna.
Chi zappa, zappa la propria vigna, se la zappa bene, la ven-demmia bene.

E' megghiu sucu 'e vinazzu e nno acqua 'e critazzu.
Anche se non è buono, il vino è sempre da preferire all'acqua.

O malu zappaturi, non ci piaci u marruggiu.
Al cattivo zappatore (inteso come chi non ha voglia di fare) gli da fastidio il manico della zappa.

Pani e vinu rinforzunu a schina.
Pane e vino rinforzano la schiena.

Pani i nu iornu, vinu i n'annu e cotrara i quindicianni.
Pane di un giorno, vino di un anno, ragazza di quindicianni

Paru cu sò paru e tajgghia paru, com'è a viti menti u palu.
Il pari va con il suo pari perciò come è la vite metti il palo.

Poveru zappaturi, zappa zappa, dinari nto stuìa-bùcca non d'attacca.
Il povero zappatore, lavora lavora, ma sempre povero rimane.

Quandu è fattu u muru i spina va ddunati a recina.
Quando è tempo delle more bisogna controllare l'uva.

Quandu Giuanni vindigna Petru menti i pali.
Quando Giovanni vendemmia Pietro mette i pali.

Quandu u vinti i marzu trona a racina veni bona.
Quando tuona il 20 marzo l'uva sarà di ottima qualità.

Rrobba i sciumara, vigna i costera.
Roba di fiumara, vigna di costiera.

Sempri tri butti nci faci a vigna.
La vigna gli produce sempre tre botti.

U bonu pani è finu a pezza, u bonu vinu è finu a fezza.
L'ottimo pane è buono fino all'ultima mollica e l'ottomo vino è buono fino all'ultima goccia.

U vinu 'a vita allonga, ll'acqua accurcia ll'anni.
Il vino allunga la vita, l'acqua l'accorcia.

U vinu è nimicu chi agisci a tradimentu.
Il vino è un nemico ce agisce a tradimento.

U vinu ijancu fin'a fezza.
Il vino bianco va bevuto fino al residuo.

U vinu jesti 'u sangu 'i ll'omu.
Il vino è il sangue dell'uomo.

Zappari a vigna vecchia e tempu persu.
Zappare la vigna vecchia è tempo perso

lunedì 7 ottobre 2013

Com’eravamo: la vendemmia

Mio padre mi chiamava nel cuore della notte «Mimmo, alzati ch'è ora».
C'era d'andare al palmento a completare il lavoro che io avevo iniziato all'alba, e la sua voce mi giungeva lontana, come in un sogno.
Mia nonna, che dormiva con me nella stessa stanza, udito mio padre, continuava a chiamarmi con tono monotono, ininterrotto «Mimmo, Mimmo, Mimmo».
La sua voce stridula mi entrava nel cervello e riusciva in fine a svegliarmi. Mi alzavo dal letto ancora assonnato e non so dire come riuscissi a vestirmi.
I miei gesti erano quelli di un automa, privi di volontà. Camminavo e agivo come un sonnambulo e credo che dormissi in piedi veramente.
La notte era tranquilla, turbata soltanto da un'aria gelida che veniva giù dai monti e faceva rabbrividire, obbligandomi a tenere gli occhi aperti, così da riuscire a destarmi.
Arrivavamo al ponte infreddoliti ed entrando nel palmento, il piacevole tepore che vi trovavamo, ci riscaldava un po’.
L'aria all'interno era satura dell'odore del mosto in fermentazione, ed io respirandone i vapori ero in un leggero stato d'ebbrezza, che mi dava le vertigini.
Al palmento non vi era la corrente elettrica e mio padre per rischiarare accendeva il lume a olio e la candela posta sulla finestra e la fiammella tremolava per gli spifferi che penetravano attraverso le fessure delle imposte.
Intanto io, dopo essermi levato le scarpe, a piedi nudi entravo nella vasca, immergendoli fino alle ginocchia, nel mosto tiepido per effetto della fermentazione e dopo aver spostato la vinaccia, appoggiavo contro la parete, davanti al pertugio, una cesta a fare da filtro, serviva quando mio padre rimasto fuori dalla vasca toglieva il grosso tappo, a trattenere graspi, bucce e vinaccioli.
Il mosto liberato, ribollendo finiva dentro al pozzetto, ed io col forcone allontanavo i graspi dal "filtro" per consentire al mosto di scorrere meglio.
Quando lo scolo si esauriva, rimaneva sul fondo della vasca la vinaccia imbevuta di mosto e noi la mettevamo nel torchio e la pigiavamo ancora.
Attaccati alla sbarra giravamo intorno ad un grosso palo che ruotava, per la spinta, su un perno conficcato nel pavimento.
La corda si tendeva e si avvolgeva al palo, muovendo la stanga, alla quale era legata. Il piano superiore del torchio, la chiocciola, una specie di madrevite, si avvitava al corpo del torchio, la parte verticale con la vite, esercitando così una forte pressione sulla vinaccia. Finché come dicevamo in gergo,”il torchio piangeva”, ossia spuntava il mosto.
Il continuo girare e la fatica mi mettevano addosso la nausea e mio padre vedendomi bianco in volto mi incitava «Dai è l'ultimo giro, ancora uno sforzo» ma non era mai l'ultimo giro.
Eseguivamo l'operazione varie volte, fino a quando non era uscita anche l'ultima goccia di mosto, lasciando la vinaccia completamente asciutta.
A mezzogiorno mia madre arrivava da casa con un canestro in testa, nel quale vi era il pranzo che aveva preparato per l'occasione, stoccafisso in umido con patate e olive verdi, e inoltre pane di grano.
Improvvisavamo la mensa con un banco di legno e delle vecchie sedie, nello spiazzo davanti al palmento, ed era la fame o la grande stanchezza, ma quella parca mensa mi pareva quella di un re.
Consumavamo in fretta quel pasto frugale e rimanevamo ancora seduti il tempo che mio padre fumasse una sigaretta.
Infine tiravamo su il mosto dal pozzetto usando una pompa a stantuffo, azionata a mano e riempivamo le botti nella cantina lì vicino.
Quando il sole era ormai tramontato e calavano già le prime ombre della sera, quella lunga e faticosa giornata era finalmente terminata.
E per sapere se tutto il lavoro svolto, ci avrebbe ripagato, si doveva aspettare San Martino, quando mio padre spillava le botti ed assaggiava il vino.
Avvicinava il bicchiere al naso per sentirne l'odore, guardava controluce per vedere il colore, dava un sorso e con soddisfazione e un pizzico di orgoglio, schioccando la lingua esclamava «Uhm! Anche quest'anno è proprio buono».