Gennaio e febbraio, generalmente, erano i mesi della potatura delle viti e, bello o brutto che fosse, tutte le domeniche mattina, all’alba, mio padre mi portava con lui alla vigna per raccogliere i tralci che, con l’inseparabili forbici da pota, tagliava.
Man mano che li raccoglievo, facevo dei mazzi che legavo con un tralcio più lungo, ottenendo delle fascine che ammucchiavo nella “lenza” più grande, successivamente, una volta secche, venivano bruciate per fare carbonella da usare in inverno nel braciere.
Ero ancora un ragazzino e, certe mattine, quando il freddo era intenso, avevo le mani talmente ghiacciate che non riuscivo a muoverle tanto mi facevano male. Ci soffiavo sopra per riscaldarle, ma non è che riuscissi a rianimarle più di tanto.
Chiedevo allora a mio padre di accendere il fuoco, ma lui non ne voleva sapere. Troppo tempo per accenderlo, mi diceva, poiché la legna era umida e poi non era nemmeno sicuro che prendesse fuoco.
Ma la vera ragione era un’altra, a parte il tempo che ci voleva per accenderlo, una volta acceso, bisognava poi curarlo per tenerlo vivo, inoltre tutte le volte che mi sarei avvicinato per scaldarmi, era ulteriore tempo che avrei perso e questo lui non poteva permetterlo.
Sul lavoro mio padre era inflessibile.
Quando poi ci trovavamo o Jancu, a parte il freddo, dopo un po’ si faceva sentire anche la sete e siccome da quelle parti non vi erano sorgenti, mio padre mi dava dei grossi tralci di vite da succhiare, oppure mi faceva mangiare i “caccialepri” che crescevano numerose sulle “armacie”, non era il massimo ma almeno la sete un po’ si placava.
Ma sotto la scorza dura di contadino, mio padre, aveva un cuore estremamente tenero e capiva perfettamente le mie difficoltà e le mie esigenze di ragazzo, così verso le dieci, con la scusa di mandarmi a messa, mi faceva tornare a casa e continuava il lavoro da solo fino a mezzogiorno e talvolta (non so fino a che punto fosse vero), dicendo di non aver udito le campane, anche oltre.
Ma le domeniche dopo, fino a quando tutte le viti non erano potate, mi faceva alzare ancora all’alba per andare con lui alla vigna, magari a Fermo, a Brancato, a Rustucu, a Cinchina, o Jancu, a Sedda a muletta, oppure a Frunti, lui a potare, ed io, con le mani intirizzite, a raccogliere i tralci delle viti.
Benvenuti a Favazzinablog
Finalmente, dopo anni che ho in mente di farlo, ho deciso di aprire questo piccolo blog su Favazzina. L'obiettivo è quello di creare una comunità virtuale delle varie persone che negli anni hanno preso parte alla vita della nostra mitica Favazzina in modo che, almeno attraverso internet, possano sentirsi e non perdere i contatti, ma anche quello di scrivere e non dimenticare le varie storie che per tante estati ci hanno fatto morire dalle risate.
Se vi va di partecipare potete contattarmi su skype (mauro.fuca) o scrivere un commento anonimo al blog (scrivete in ogni caso la vostra email) così vi faccio diventare autori del blog e potrete darmi una mano.
Salutamu!
UGRECU
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UGRECU
giovedì 21 gennaio 2010
Una domenica bestiale
U scriviu: Spusiddha u iornu: giovedì, gennaio 21, 2010
Argomento: Storie 'i Favazzina
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10 commenti:
Spusy,sempre garbato, hai aperto una finestrella dei ricordi della mia infanzia...
Non fai in tempo a finire di deliziarti con D.V. ecco che l'altro D.V. ci regala un altrettanto bella pagina favazzinota.
Non per niente sono cugini, primi e omonimi. Grazie Grecu per questo blog: se tu non ci fossi - a propositu: aundi cazzu si'- bisognerebbe inventarti.
Beh, una
Basterebbero solo i nomi dei luoghi per far bello questo racconto. E invece sono una piccola parte della sua bellezza.
A proposito Mimmo di tutte queste terre, una domanda: eravamo latifondisti e non lo sapevamo?
Bella Spusidda, tra i vari lavori era quello che detestavo di più, la raccolta dei maledetti tralci, cazzo non finivano mai.
Quando bruciavano emettevano un lamento come se piangessero e lasciavano un fumo bianco e denso.
Da ogni vigna si alzava questo fumo e mi piaceva pensare che eravamo circondati dagli indiani:"segnali di fumo, gli Apaches sono sul sentiero di guerra".
Invece gli indiani eravamo noi, forse più sfruttati di quelli veri.
Erano altri tempi, caro cugino, ed era giusto dare una mano anche se intirizzita dal freddo
non vorrei essere spoetizzante, ma non si poteva portare una bottiglia d'acqua?
Di solito si portava u bumbulu o la borraccia, quasi mai di domenica perchè si finiva prima.
La bottiglia mai, si rompeva facilmente e ancora non c'erano in commercio quelle di plastica.
Spusidda racconta degli inizi degli anni sessanta, quando ancora, tolto il lavoro, tutto il resto era un optional, perdita di tempo, moine.
Vita dura, non tanto per noi che svicolavamo tutto a mancina (già comunisti) quanto per i nostri genitori.
Sembrava facessero tutti una gara a chi lavorasse di più.
Mario hai ragione, Spusidda era un latifondita, aveva vigneti anche sulla luna, solo qualche piccola difficoltà per trasportare il mosto alle botti, la cantina era o Ponti, sulla terra, a Favazzina.
Armon quando ci becchiamo ?
Tralci di vita vissuta, tra le zolle di terra e viti di malvasia. Una bella immagine di un uomo che ha lavorato duro, senza risparmiarsi. Amo la gente che lavora la terra. Complimenti Mimmo, una domenica dura, ma ricca di soddisfazione.
Purtroppo non mi sono potuto connettere prima, ma u Longu che è la mia anima gemella, e ha vissuto le mie stesse esperienze, ha dato delle spiegazioni più che esaurienti alle vostre domande.
Per noi ragazzi era dura e anche se avremmo volentieri evitato quelle faticaccie, sapevamo che dovevamo farlo per aiutare i nostri genitori.
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