Benvenuti a Favazzinablog

Finalmente, dopo anni che ho in mente di farlo, ho deciso di aprire questo piccolo blog su Favazzina. L'obiettivo è quello di creare una comunità virtuale delle varie persone che negli anni hanno preso parte alla vita della nostra mitica Favazzina in modo che, almeno attraverso internet, possano sentirsi e non perdere i contatti, ma anche quello di scrivere e non dimenticare le varie storie che per tante estati ci hanno fatto morire dalle risate.
Se vi va di partecipare potete contattarmi su skype (mauro.fuca) o scrivere un commento anonimo al blog (scrivete in ogni caso la vostra email) così vi faccio diventare autori del blog e potrete darmi una mano.
Salutamu!
UGRECU

domenica 25 dicembre 2011

sabato 24 dicembre 2011

Suonala ancora, Guglielmo

Condurso di Seminara, ceramicaro eccelso, annuiva a se stesso, soddisfatto. Non produceva tali manufatti, di solito, tanto diversi da bumbuli, maschere, babbaluti.
Gli era venuto bene, nella forma e nelle proporzioni, naturale nel colore.
Pensava alla pelle di quel bambino, sembrava vera: sì, era soddisfatto.

Mezzanotte passata, la messa era finita, i fedeli uscivano dalla chiesa a coppie o solinghi, i fanciulli appena desti dopo il sonno liturgico, in frotta su la piazzola, qua e là saltando ammenzu a tricchi tracchi, surfalora, castagnoli, puru na bumba a manu ma léggia.
Un lieto romore.
Cosa si suona in una sera come questa, Chopin, Mozart? No, forse Bach.
L'organista rimasto solo nella chiesa saliva e scendeva scale armoniose, contrappuntava alla perfezione, seguiva con lievi dondolii della testa lo scorrere delle dita sulla tastiera; d'un tratto fissò lo sguardo verso il presepe sistemato a un metro da lui, sul lato sinistro del transetto, ammesso che quello sia un transetto.
Eccellente realizzazione, asino e bue mansueti, Giuseppe paziente e paterno, Maria umile, regina, mamma.
L'organista stirò la colonna dai lombi alla cervicale nel tentativo di avvicinare ai suoi occhi la figura del bambino appena nato.
Non sapeva dire, qualcosa attirava la sua attenzione. Si avvicinò più che potette, vide che la superficie del corpo del bambinello nudo non era liscia, c'erano tante piccolissime protuberanze, vicine le une alle altre.
-Ha la pelle d'oca!-
Guardò verso l'uscita, la porta della chiesa era ancora aperta. Smise di suonare, si alzò.
Raccolse il bambinello nel palmo delle mani congiunte, uscì nella piazza e si avvicinò al grande fuoco. I ccippi, pure quest'anno.
Cullava il bambino adagiato in quella sorta di amaca avanzando verso il fuoco fino a quando sentì le mani scaldarsi.
-Malumbra, chi fai? u ietti nto focu?-
Udito non aveva per sentire, solo visione per vedere il bambino sorridere e sbadigliare, forse stava addormentandosi: meglio restituirlo alla famiglia.
Or la squilla dà segno della festa che viene:
-Guglielmo, fai piano che dorme-.

Io che mai mai mai accetterei di essere chiamato cattocomunista, non credo a questa storia però mi piace.
Buon Natale.

mercoledì 21 dicembre 2011

La carta del torrone

Bordighera, addì 21 dicembre 1892

Premiata ditta Cardone Francesco e Antonio, per conto di Sua Maestà la Regina veniamo a chiedervi la spedizione di casse in numero di due del torrone varietà a poglia, parimenti numero due casse di quei biscotti quaresimali di cui codesta ditta è produttrice.

Porgiamo distinti saluti
S.A.R. Margherita di Savoia
Il Segretario
*


A Reggio il torrone non lo sanno fare. Gira e mena, al torronaro non gli viene mai come dev'essere: duro e friabile che appena appena lo mastichi si scioglie in bocca senza una minima gommosità.
Siccome non lo sanno fare si sono inventati il torrone gelato, un ammasso di zucchero fondente incastonato di mandorle, frutta candita, pezzi di cioccolata: così sono in pace con la loro maestria, se non gli viene duro, lo fanno morbido. Il risultato finale non è sgradevole a vedersi con la forma a tronchetto e figure a tema natalizio istoriate sulla copertura di cioccolata, pure è piacevole da mangiare, poco però, essendo prodotto che "sdinga" a causa dell'eccesso zuccherino.
Mangiavo di questo torrone nell' adolescenza reggina e aspettavo: prima che venisse la vigilia di Natale sarebbe arrivato il torrone di Bagnara.
Quello sì era un torrone che mentre lo mangiavi non bastava dire quanto fosse buono ma dovevi ascoltare la leggenda che aveva dentro e il mito dei Cardone fornitori della regina e Frosina suo eterno rivale e l'astro nascente Careri allievo di Cardone e Minutolo allievo di Frosina e tutta Bagnara a cuocere torrone e mia zia di Porelli li conosceva tutti pure Pauleddu Cundari allievo di Staceppa, autodidatta.
Basta torrone, ottimo ma basta. Era della carta che volevo parlarvi.
La carta che avvolgeva la poglia era un foglio rettangolare di stagnola argento sul lato esterno, bianco a contatto col torrone, una cosa normale come un qualsiasi condorello.
Invece un involucro esterno così ce l'aveva solo Cardone: un foglio rettangolare rosso in trasparenza con piccole incisure lungo il bordo dei due lati minori che quando s'incaramellava il torrone le estreme sfrangiavano fuggendo via leggere dallo strozzo della torsione.
Sdipanavo l'attorcigliamento e stiravo con il palmo della mano il foglio, in leggera controluce prendevano vita la testa di uno che poi era il re d'Italia e le parole di uno che commissionava torrone per la regina Margherita.
Quando fui in grado di capire il testo -il torrone lo mangiavo da molto prima- la comprensione dovette coincidere, penso, con il mio periodo salgarian-patriottico-garibaldino: m'immaginai piroscafi sulla rotta Reggio-Genova, con una sosta a Civitavecchia forse. La spedizione delle poglie: rosse, erano rosse.
Passato quel tempo e altro tempo, non ho imparato la storia tanto da potermi dire illuso o disilluso.
Allora non avevo dubbi sull'Italia unita, sennò a che minchia serviva quel via vai di casse di torrone da Marineja a Bordighera?


*La commissione del segretario è corretta nella sostanza, non nella forma.
Le parole esatte non le ricordo, se qualcuno può correggere sarei contento.

lunedì 12 dicembre 2011

La luna e i ceppi

E’ un dicembre insolitamente strano, quasi mite, il cielo è terso e la luna nella sua fase di plenilunio illumina a giorno la campagna circostante davanti casa mia. La guardo e il pensiero corre a Favazzina quando in questi giorni, da ragazzo, insieme ai miei amici andavamo a prendere i ceppi negli orti per il tradizionale falò della Vigilia di Natale.
Erano i giorni che precedevano l’evento tanto atteso, quello che più di tutti ci vedeva protagonisti e noi ci prodigavamo affinché vi fossero ceppi a sufficienza e il falò potesse ardere fino all’alba.
Ci trovavamo in piazza dopo cena quando la luna era già spuntata sopra Brancatò, spandendo la sua luce e orlando d’argento i tetti delle case e le stradine deserte del paese.
Ci teneva compagnia la luna e ci dava coraggio stemperando un po’ la paura del buio che inevitabilmente ognuno di noi aveva nascosta dentro di se.
Negli orti i suoi raggi argentati dilatavano le ombre e gli alberi di limoni ci sembravano dei giganti che volessero ghermirci, afferrarci con i loro rami e stringerci in un abbraccio mortale, e non so se fosse per questo o per paura che il contadino ci sorprendesse, che tiravamo su i ceppi più in fretta possibile e, altrettanto rapidamente, (tranne u Longu) tornavamo in piazza ognuno col suo carico sulle spalle.
E le sere dopo, insieme alla luna, ritornavamo ancora negli orti a prendere i ceppi e a tenere viva una tradizione che ahimè nel corso degli anni si è tristemente persa.
La luna, bellissima e splendente, silenziosa compagna di quelle meravigliose sere che ancora oggi custodisco gelosamente nel mio cuore.

venerdì 9 dicembre 2011

F. C. Favazzina

F. C. FAVAZZINESE

Nella primavera di qualche anno fa, fine anni 60, a Cannitello, ridente paesino sullo Stretto, a qualcuno venne la brillante idea di organizzare un torneo di calcio, invitando l’altrettanto ridente paesino di Favazzina, ( i paesini ridono sempre)
Il C.A.S., circolo autonomo sportivo, a quei tempi al massimo del suo splendore, un po’ per fare onore al suo nome, un po’ per dimenticare la bisca clandestina che era diventato negli anni, decise di accettare l’invito sponsorizzando una squadretta locale.
Tutti i giovani del paese erano mobilitati, compreso il vostro umile scriba, tecnicamente dotato ma dalle movenze limitate e con miopia galoppante.
Furono comprate le divise, magliette color ciclamino con collo bianco, pantaloncini bianchi, calzettoni viola, scarpini professionali o quasi perchè era proibito il calcio al volo, si rischiava di rimanere scalzi per frantumazione di scarpa.
Comunque gli strumenti, seppure a buon mercato, c’erano, bisognava formare la squadra perché si avvicinava pericolosamente la data del debutto.
Furono usati tutti i mezzi, richiami dalla leva militare, rimpatrio di oriundi, amnistie, falsi certificati medici, conoscenti, affini.
Finalmente eravamo in undici con ben due riserve, non erano previsti infortuni, data la tempra.
Il campo, una volta adibito a piantagione di muluni, era una striscia di sabbia nei sobborghi di Cannitello, stretto tra lo Stretto e la ferrovia, a proposito di stretto mi erano toccati scarpini di un quarantadue scarso contro il mio quarantacinque naturale, dolori terrificanti ma piede di una certa classe.
Ma torniamo alla squadra, eravamo scarsi ma con delle eccellenze, mi piace ricordare specialmente Dino, della categoria dei conoscenti, l’aveva portato Natale B., un talent scout naturale prima di darsi al biliardo.
Dino era un centravanti che riuniva le doti di Boninsegna e Riva, bastava che gli dessero la palla ed era gol e ce ne volevano tanti per sopperire alle falle difensive.
Altra eccellenza era il predetto talent scout, Natale, dribblomane sublime faceva i tunnel anche all’arbitro, ai guardalinea, a quelli seduti in panchina, e se occorreva anche a qualche passante.
Non mi ricordo qualcuno che gli abbia mai preso la palla, se non per il fatto che era sua e doveva tornare a casa.
Poi in larga parte c’erano i mediocri, come me, ma che ci davano l’anima, e poi gli scarsi, pochi ma scarsi ‘nto bonu, non si putivunu vardari.
C’era il portiere, Biasi, detto il ragno nero, ma non in onore a Cudicini, ma proprio perché stava fermo, faciva i fulini, mentre i palluni passavunu comu o mari ‘nta na barca sciutta.
Poi c’era il club dei peri storti, capitanati da Cicciu C., il pallone poteva andare da qualsiasi parte, tranne dove doveva.
Un caso a parte era l’addetto al calcio di rinvio, forse aveva scarpini di ferro, fatto sta che in un rinvio il pallone sorvolò piazza S. Rocco di Scilla, scambiato per un UFO, in linea retta passò sopra le colline favazzinote scambiato per ceddu i passu fu per questo fatto bersaglio chi mancu la contraerea a Londra nella seconda guerra mondiale, uscito indenne ferì un assessore di minoranza al municipio di Palmi che, convinto fosse stato un attentato della maggioranza, diede inizio alla famosa sciarra di Palmi.
In un rinvio dalla parte opposta mandò il pallone dentro la pentola del sugo di una famiglia di Saline Joniche, lo mangiarono senza tante storie, la casalinga era terribile.
Siccome i palloni erano contati, il rinviatore fu deposto dall’incarico.
Altro problema era quando il pallone cadeva in mare, se non si recuperava subito la corrente lo portava prima a Ganzirri, poi nei pressi del castello di Scilla e alla fine rientrava.
Dopo il rientro il primo a colpirlo di testa s’accorciava di cinque centimetri con doccia nel raggio di due metri, qualche volta saltava fuori qualche pesciolino che aveva trovato rifugio tra le legature.
Un problema personale , oltre gli scarpini fuori misura, fu quando mia madre sbagliò il lavaggio della mia maglietta facendola diventare bianco latte, gli arbitri non ne volevano sapere di farmi giocare per questo l’allenatore s’inventò la storia del jolly, come nella palla a volo. Precorevvamo i tempi.
Finimmo il torneo tra i primi, Dino fu il capocannoniere, l’incontrai, dopo anni, una sera a Milano, per caso, prendevamo lo stesso tram, poi non lo vidi più.