Benvenuti a Favazzinablog

Finalmente, dopo anni che ho in mente di farlo, ho deciso di aprire questo piccolo blog su Favazzina. L'obiettivo è quello di creare una comunità virtuale delle varie persone che negli anni hanno preso parte alla vita della nostra mitica Favazzina in modo che, almeno attraverso internet, possano sentirsi e non perdere i contatti, ma anche quello di scrivere e non dimenticare le varie storie che per tante estati ci hanno fatto morire dalle risate.
Se vi va di partecipare potete contattarmi su skype (mauro.fuca) o scrivere un commento anonimo al blog (scrivete in ogni caso la vostra email) così vi faccio diventare autori del blog e potrete darmi una mano.
Salutamu!
UGRECU

martedì 30 marzo 2010

Una pittrice favazzinota

Da quando mia moglie, mio figlio ed io abbiamo scoperto la pittura di Enza B. siamo diventati dei suoi estimatori, ed abbiamo fortemente voluto avere alcuni dei suoi quadri, affinché arricchissero e dessero maggior prestigio alla nostra casa.
L’esplosione di colori, caldi, mediterranei, che caratterizzano i suoi quadri, sono una gioia per gli occhi e mi fanno ricordare la nostra terra, il nostro mare, il cielo azzurro che solo dalle nostre parti si può vedere.
E' per fare un omaggio ad Enza che voglio, a chi non conosce la sua pittura, far vedere la sua arte e soprattutto la sua bravura.














Votare oh-ò

La discesa in campo dell'episcopato è stata ammirevole per equidistanza e precisione d'indirizzo: nè destra nè sinistra, meglio votare un candidato cattolico. Non so se sono sprovveduto o insipiente ma ho sempre pensato che un amministratore delle cose private e in questo caso pubbliche debba essere innanzitutto bravo. Come un amministratore di condominio. E qui posso parlare a ragion veduta, ho una buona esperienza di riunioni interminabili e inconcludenti e dico che il bravo amministratore può celarsi dove meno te l'aspetti. Quando il condominio fu istituito, come primo amministratore demmo la precedenza a un cattolico per ovvi motivi di maggioranza di culto. Tra l'altro era un marchigiano di Loreto, a maronna ndiccumpagna era il minimo che ci si potesse augurare. Nella realtà con la cassa condominiale si facevano a nostra insaputa offerte alle missioni di mezzo mondo e il Mato Grosso lo finanziammo per intero. La misura fu colma con l'acquisto di 50 crocifissi, made in China, da appendere negli spazi comuni condominiali. Il loretano fu licenziato. Del secondo amministratore, un musulmano che nelle referenze aveva scritto laureato in economia alla madrasa di Kabul, non capivamo le convocazioni scritte; però coi numeri arabi ci sapeva fare e i conti erano comprensibili e irreprensibili. Lo licenziammo lo stesso per il disagio delle riunioni. Accosciati su quei tappeti aspettando che finisse di pregare, fumando come turchi constatammo che l'oppio è la religione dei popoli, nell'attesa cominciavano a spuntare barbe sospette. Anche se sono pochi ma convinti, non potevamo ignorare la terza religione monoteista pertanto assumemmo Yehoshua, un israelita errante che interpretando la Cabbala trovò la terra promessa nel nostro condominio. Era bravo e l'avremmo tenuto ma quando uno la diaspora ce l'ha nel sangue non lo puoi fermare nemmeno con l'esercito turcomanno. Emigrò in una località balneare portandosi dietro gli autofinanziamenti di un anno e aprì un chiosco per la produzione di granite, rigorosamente kosher. Il susseguente amministratore Hindu durò tre mesi fino al giorno in cui sistemò una catasta di legna nel cortile interno. Intendeva purificare la suocera, glielo impedimmo e la suocera ogni tanto telefona per ringraziare. L'ultimo amministratore era di culto incerto, uno strano ibrido di fricchettone, figlio dei fiori e residuato bellico del 68. Ma era un dio di amministratore, peccato che ce lo portarono via. I conti condominiali, miracolosamente in ordine, fruttavano e fiorivano interessi: versavi la tua quota e te la restituiva maggiorata del 10%. Le riunioni a casa sua erano un'estasi di profumi aromatici, tisane corroboranti e musica psichedelica. Curava anche il verde condominiale, l'aveva fatto diventare lussureggiante più di un giardino officinale, peccato che fu proprio là che lo caricarono sulla camionetta dei carabinieri. Quasi quasi avrebbero arrestato pure noi per complicità, ma non potevamo sapere che si trattava di cannabis, pensavamo fossero canne.
Stanco e disilluso degli amministratori in genere, mi sono ritirato. Sono andato a vivere in campagna.

Ho rispettato la consegna del silenzio elettorale. A urne chiuse e a batosta semiassorbita, edito questa cosa per salutare gli amici Le Long, Ninochinnu e Spusidda, compagni nella sconfitta. Saluto anche il capo del quale non so ma sospetto che abbia vinto. Saluto Antonio anche se non ha partecipato alla tornata elettorale. Buona Pasqua agli amici del blog, Mariuzza, Statua A, Malumbra, Grecu, Mister, Mbù: cito gli ultimi apparsi per citarli tutti.
Vado in Russia e forse non torno. Viva il comunismo, viva la libertà, viva gli ossimori.

sabato 27 marzo 2010

Ragguagli fotografici

La distanza tra un paletto e l'altro è di circa 2mt, quindi considerando che alcuni come si vede son stati divelti dal mare, facendo un rapido calcolo.. sono in totale circa 8mt, arrivando a circa 1,5mt dall'acqua.
tracciate virtualmente una proiezione che dal paletto alla destra va verso l'acqua, un'altra che parte dal masso appositamente segnato da vernice blu in modo perpendicolare alla prima. Il loro punto d'intersezione, è il punto in cui era posto uno dei paletti che si vedono per terra nella foto precedente perchè divelto dal mare.
in questa foto forse si capisce meglio il limite di recinzione di cui spiegavo prima e che risulta così a circa 1,5mt dall'acqua
ecco come ci appare il perimetro dell'area privata proseguendo a ritroso in direzione Scilla
e come nella foto precedente anche qui si può notare come i massi acquistano una sorta di "natura dualistica" .. metà pubblica, metà privata.
ed ecco come ci appare il complesso delle recinzioni nella sua totalità, vista Bagnara Calabra
questa è una delle lettere esposte per ogni particella che insiste su tutto il perimetro delle recinzioni viste nelle precedenti immagini.

A voi i commenti.

Ora legale

giovedì 25 marzo 2010

L'autopsia i Pascali

I parenti di Pascali erano distrutti dal dolore. Avrebbero preferito che dei due fosse morta prima Filumena e poi lo sposo, anche a breve se il destino così avesse deciso. Quando c'è di mezzo l'affetto che stai a guardare la cronologia? Soprattutto ora che la vedova, si sussurrava, stava sdisonorandu il proprio defunto fresco di tre mesi.
-Buttanazza, prima u mmazzau e ora sa spassa- disse il cognato, marito della sorella di Pascali. Contattò un avvocato di Reggio che disse sì, in ragione del post hoc ergo propter hoc e considerando l'hysteron proteron confermato dall'articolo numero 500 e successivi, potevano intentare causa alla vedova privandola dei diritti che sarebbero passati al defunto che defungendo li aveva passati agli eredi. Ma per fare questo bisognava accusare Filumena di omicidio anche colposo se non preterintenzionale e quindi esumare la salma.
-U maru i Pascali? Sia chiaro avvocato, lo facciamo per affetto e amore di verità.-
-Vi capisco, anch'io vi assisto per amore di giustizia.-
Tirarono fuori dal loculo Pascali non senza fatica, u tambutu s'era incastrato su un lato.
-Puru mortu, minchia chi rumpicugghiuni- disse il cognato affranto.
Il perito settore d'ufficio, dopo aver eseguito l'autopsia, confermò che si trattava di morte accidentale per soffocamento causato da un agente ostruttivo morbido compatibile con l'apparato mammario della signora Filumena.
Il perito di parte della signora fu d'accordo sulla morbidezza della propria assistita. Il perito di parte dei parenti di Pascali contestò, a lui non risultava tanta sofficità, anzi e presentò ricorso chiedendo il parere di un altro perito super partes.
-Capiscisti nenti?- chiese la sorella del riesumato.
-Capiscia chi non sunnu d'accordu chi minni i da zocculuna i to cugnata.-

L'incaricato del tribunale di Reggio spiegò che si era deciso di interpellare un luminare veramente al di sopra delle parti e aldilà dell'oceano. Lo avevano scelto per la fama di miglior medico della Florida e uno dei migliori di tutti gli US. Il medico disse che non poteva accettare l'incarico proprio ora che c'erano la dichiarazione dei redditi da presentare e le tasse da pagare.
-Le tasse gliele paghiamo noi e le mettiamo nelle spese processuali.-
-A cu stamu spittandu? Parto subito, avi na vita che manco da Favazzina.- e riattaccò il telefono.

Nell'obitorio un silenzio di tomba. Avevano seguito l'autopsia affascinati dall'abilità del medico, il povero Pascali non avrebbe potuto desiderare di meglio, era veramente in buone mani: un professionista così non si vedeva dai tempi di Roccu u bucceri.
-Allora professore, è stato soffocato dalle minne o da che cosa?-
-Minni 'a nenna! non è stato soffocato. E' stato il fiorellino, se così mi posso esprimere, "vulendu fu na bella morti".-
-Professore può esser più preciso?-
-Interruptus et exitus per sopraggiunto myocardial infarction. La signora Filumena è legalmente innocente. Potete ricumbugghiari.-
-Capiscisti nenti?- chiese la sorella del riseppellito.
-Capiscia chi to frati fu na minchia morta. Fici bbonu chi murìu.-

-Carissimo Arcade, amicu mei. Sono arrivato in questo momento. Ti volevo chiedere: avete per caso trovato un Rolex smarrito a Favazzina?-
-Ma certo, tu spirdisti nto lavandinu i l'obitoriu.-
-Non è che puoi? ti sarei grato.-
-Va bene, te lo spedisco però a spese tue stavolta.-
-Comu a spese mie? Facciamo fifty fifty e non si ndi parra chiù.-
e spense Skype.

mercoledì 24 marzo 2010

Spuesy e la fuitina

La bussata fu lieve a tal punto che a momenti si spundava a porta, era cummari Giuvanna, la vicina di Spusey
:- O mali pi mia, s'arrubbaru a me figghia - disse con voce strozzata
:- Comu s'arraubbaru ? e chi nera na cascitta i limuni ? - rispose Spusey
:- Vi ricu chi non c'è, scumpariu -
In effetti era scomparsa, il letto era intatto, mancavano poche cose di vestiario.
Era stata inghiottita dalla notte umida e senza vento
Filumena era una bella ragazza, ma sulu i facci, per il resto era para, come un lottatore di sumo, solo che apposta ra panza aveva le minne, smisurate, immense, due larghi promontori attaccati alla costa.
Non era grassa, era giunonica, robusta, china, molto alta.
Aviva na caminata strana, caracollava, comu na palamatara a'nmezzu a maretta.
Unica figlia femmina, le avevano fatto una dote invidiabile, casa, vigne, orti, un corredo chi pariva u mercatu i Bagnara, soldi.
Insomma, u beni i Diu
Nonostante avesse varcato da un pò la soglia dell'eta da marito, non si presentava nessuno, nisba, zero assoluto, anche perchè la famiglia aveva delle pretese chi cazzi, aviva a essiri bellu, pulitu, sistimatu, 'mbucca ostie, possibilmente con presenza, data la stazza dell'ereditiera.
La ragazza sfogava i suoi digiuni sessuali a corpi i scorcicoddu pi tutti, parenti, passanti, vicini, si salvava solo Spusey perchè impugnava la pistola d'ordinanza.
:- Mangiano ? - chiese Spusey
:- Si, ma mi cacunu l'amu, che mi devi dire Spusey - rispose e domandò Le Long
:- Scumpariu Filumena a figghia i cummari Giuvanna - e gli raccontò tutto
:- Fuga d'amore, fuitina - sentenziò Le Long
:- Chi cazzu rici Le Long, ma l'hai presenti a Filumena ?
:- Un salvadanaio ca spacca - rise Le Long, aggiungendo:- Ou, stasira trisetti -
La ragazza era sicuramente rimasta nel paese, aveva l'incarico di cercarla, ma dove ? con chi ? Spusey si scervellava e girava per il paese alla ricerca di qualche minimo indizio.
Non poteva fare domande perche la cosa doveva rimanere segreta, l'onore, non si poteva denunciare subito la scomparsa perche era maggiorenne.
Un casinu
Al tavolo il dottore, compagno di tresette di Spusey, era incazzato come una biscia:
:- Ma se non sai iucari chi ti setti a fari ? ti chiamu a coppi e veni a spadi ?- diceva a Spusey
:- Scusami aiu cazzi pa testa e poi chisti hannu nu culu quantu na cascia -
Al pensiero della cascia si ricordò di Filumena, aundi cazzu era ?
Le Long e Mastro Natale ridevano divertiti, giocavano contro la serie B, dilettanti allo sbaraglio, parenti poveri del tresette.
Con una napoletana e tre tre Mastro Natale pose fine all'agonia, insieme a le Long si alzarono stringendo le mani agli avversari, presentandosi con nome e cognome ai rispettivi fratello e cugino, una sottile presa per il culo.
Spusey aveva notato che stranamente non c'era Pascali, di solito immancabile al bar per le partite serali di tresette, era uno di quelli che aveva u viziu mi si metti i latu, e a fine partita sparare cazzate immani su come avrebbero dovuto giocare i contendenti.
Spusey lo detestava garbatamente.
Pascali era un giovanotto tantu picculu quantu malignu e ignorante, disoccupato, aveva fatto trecento concorsi, duecento domande e mille ricorsi, come il fratello di Pasquale Cafiero, il brigadiere che faceva il caffè a don Raffale, nella canzone omonima. (faber)
Nonostante i cugni restava a spassu, troppu sceccu. Sa passava mali.
:- Voi viriri chi Pascali si sistimau ?- pensò Spusey
Dopo poche ore li beccò che uscivano furtivamente dalla casa di una zia ruffiana e disse semplicemente : - Ch'imu a fari ? -
Fu un matrimonio riparatore, anche se non c'era niente da riparare data la differenza di mole, se mai, sosteneva Le Long, era lei che doveva riparare.
Si favoleggia che, per fare l'abito da sposa, avessero comprato il velame di un tre alberi fermo al porto di Scilla, la vela maestra per l'abito e lo spinnaker per lo strascico.
Nella foto davanti la chiesa, l'abito nuziale nascondeva il fatto che lo sposo fosse sul terzo gradino, e la sposa, senza tacchi, sul selciato della piazza.
Dopo qualche anno Pascali sa quagnau, dicono sia stato una malore, ma Spusey rimane convinto chi muriu soffocato a non vulendu, so mugghieri 'nto sonnu si girau 'nto lettu e con i promontori u "ffuau.
Vulendo fu na bella morti, se l'era cercata, non s'iva cacciatu u viziu mi si metti sempri i latu.

domenica 21 marzo 2010

Analisi di un'opera d'arte


L'opera fu commissionata dalla S. Chiesa ad uno scultore la cui identità non giunge a noi, essa però non fu mai riconosciuta in quanto considerata sacrilega, si ritiene che l'autore fosse in realtà molto distante e discordante dalle vedute ecclesiastiche.
Partendo da una visione globale, si può notare una buona composizione d'insieme che mette volutamente in risalto la figura principale rispetto alle tre figure degli angeli, e buone risultano le proporzioni.
Effettuando un'analisi più approfondita, riconosciamo l'ottima abilità nel riprodurre le singole parti anatomiche, soprattutto per quanto riguarda le mani della figura principale, volte al cielo, con una ricercata posizione delle dita che dona una straordinaria espressività e plasticità; plasticità che ritroviamo soprattutto nella postura di tutti e quattro gli elementi componenti la scultura, anche se limitata da un drappeggio soltanto accennato.
Espressività anche nei volti, quello dell'angelo alla sinistra dell'osservatore, che si volge alla figura principale con devozione spirituale; quello dell'angelo posto alla destra dell'osservatore, che lo vede gaio, luminoso; quello dell'angelo posto centralmente in basso, nel quale lo sguardo è volto verso l'osservatore, con l'espressione di chi testimonia ciò che accade e che rafforza con gioia l'evento stesso; l'espressione del volto della figura protagonista fa trasparire una soave visione mistica che lo attira a se avvolgendolo in uno stato di grazia.
Infine, osservando bene la scultura fin nei dettagli, riusciamo a scorgere chiari elementi che avvalorano la tesi precedentemente detta riguardo il pensiero religioso dell'autore:
I baffi costituiscono di fatto l'atto più oltraggioso nei confronti della S. Chiesa, quasi a volere schernire non solo la figura che viene rappresentata dalla statua protagonista, ma il concetto stesso a cui la scultura si ispira.
Concludendo, gli occhiali sono un elemento che, all'interno dell'intero panorama scultoreo, appare per la prima volta; l'autore lo introduce allo scopo di ricreare una sorta di allegoria, in cui proprio gli occhiali indicano la conoscenza, un guardare le cose dal punto di vista espressamente razionale, scientifico. E rifacendosi a questo l'autore si spinge oltre, lasciandoci un chiaro incitamento ad accostarsi alla Scienza, e lo fa apponendo gli occhiali anche ad uno degli angeli che, con la sua postura e gestualità, dimostra essere fedele discepolo del suo maestro di Scienza, la figura principale per l'appunto.
Lo scultore rafforza in tal modo il suo messaggio subliminale e pone al centro le differenti correnti di pensiero che vedono contrapposte Religione e Scienza.

Il "Malumbra" d.o.c.

Voglio segnalarvi il vino prodotto con tanta passione dai fratelli Fabio e Sergio M. un classico della nostra terra e dei nostri vitigni.

Vitigni utilizzati: Gaglioppo 95-100%, Trebbiano toscano/Greco bianco massimo 5%. Gradazione alcolica minima totale: 12,5%. Invecchiamento obbligatorio: 7 mesi. Caratteristiche: colore rosso rubino; profumo gradevole, delicato, intensamente vinoso; sapore secco, corposo, caldo, armonico, vellutato con l'invecchiamento. Denominazioni e qualificazioni particolari:

-"Classico": se prodotto nel territorio di Favazzina
-"Superiore": con gradazione minima del 13,5%.
-"Riserva": con gradazione minima del 13,5% ed invecchiamento di 2 anni.
Abbinamenti con i cibi: arrosti, selvaggina. Temperatura di servizio consigliata: 18-20 °C

A suffragare la sua notorietà e soprattutto l'indiscussa qualità, vi allego il filmato di un noto sommelier che ne decanta le lodi.


sabato 20 marzo 2010

La doccia s.s. e la doccia di Lalla

La doccia s.s.
Non ce l'avevo la doccia, non avevo neanche la terrazza e mi ero ridotto sul lastrico con una bagnarola Moplen piena d'acqua a riscaldarsi al sole. Usavo una bucaletta con manico, mi versavo l'acqua addosso per un'abluzione parziale ma sufficiente per le esigenze igieniche estive.
L'acqua scaricava da un purtuso che sfociava nel cannolo, scendeva e scorreva nella vinedda dopo aver lambito la seggia di cugginu Ntoni che leggeva la Gazzetta del sud.
-Mi sta' lavandu i peri, nniricatu- grirava pi supra.
-Mi sto facendo la doccia- rimandavo abbasciu.
-Va fattilla nta marina.
La doccia nta marina non c'era ma gli australopitechi che abitavano la spiaggia preistorica si stavano emancipando e non potevano sopportare più il sale sulla pelle, la secchezza dei capelli, il naturale olezzo del sudore. La doccia era indispensabile e bisognava installare. Inutile rivolgersi ufficialmente al comune di Scilla, già ci fottevano l'acqua per dirottarsela a casa loro, -l'avidità delle cucuzze longhe-, il sindaco se ne sarebbe lavato le mani. Mimmu Spusidda non si rassegnava, era convinto che potevamo farcela da noi stessi, organizzò una spedizione a Scilla dove, non so bene in quale magazzeno comunale, prendemmo furtivamente in prestito vari tubi idraulici e viva evviva a Santu Roccu! Le mani d'oro di Spusidda sono le operose appendici di una mente naturalmente predisposta all'organizzazione, per uno che ogni anno tesseva la rete da pallavolo da un semplice gomitolo di corda raccordare quattro tubi fu come bere un bicchier d'acqua. Allacciammo la tubatura alla rete idrica del retrostante orto di compare De Giovanni di fianco ai Bonavita. L'ingegnere comprò di tasca sua il diffusore e il rubinetto dopodiché consegnò l'opera. Si poteva inaugurare. Un successo, di pubblico e di critica. E notorietà. A Bagnara e Scilla non ci volevano credere e mandarono ambasciatori: quelli di Bagnara furono invitati a usufruire del servizio, quelli di Scilla furono pigghiati a puntati nto culu.
Collocata sul muro di cinta del giardino, in fondo alla via marina subito a sinistra, la doccia lavorava a getto continuo.
Avevo dismesso la bagnarola, ora sul lastrico ci andavo solo perchè mi piaceva affacciarmi e vedere il mondo nel vicolo di sotto. Cugginu Ntoni leggeva la Gazzetta del sud.
-Cugginu Ntoni, a cu mmazzaru oggi?
-Ehi, nniricatu. Non ta fai a doccia?
-No, avevate ragione. Megghiu nta marina.


La doccia di Lalla
Ma quand'è che dalla storia si entra nella leggenda? Ci voleva un esempio fulgido, un eroe eponimo. Qualche dio di Sprumunti provvide. La signora Lalla venne alla doccia titubante e timorosa, aspettò il suo turno in silenzio. Quando toccò a lei, posizionò gradualmente e con cautela il suo corpo breve e circolare sotto il getto, temendo piovesse fuoco s'accorse che era veramente fuoco e la stava avvinghiando per affondarla nei gorghi della passione. La signora saltellava sotto la cascata come una rana quando le si titilla il posteriore e gorgogliava comu a na gazzusa appena stappata. I suoi gesti diventarono il sembiante della voluttà idrica che la stava possedendo. Sdillabbrò lo scollo del costume permettendo al liquido di intrufolarsi, parimenti sdillabbrò l'elastico inguinale per permettere l'uscita, ma l'acqua ristagnava e baddariava nell'intercapedine, scivolava a piccoli rivi schiumosi lungo le cosce. Nel retrotreno la maggior aderenza del costume se permetteva l'introduzione ne ostacolava la fuoriuscita e l'acqua si accumulava nella regione sovragluteale raddoppiando il tafanario a mo' di ottentotta. Lalla liberò dalla contenzione parte della culatta e il liquido potè sculare. Infine scutulò dimenandosi energicamente e s'acquietò, asciutta e prosciugata.
Lo spettacolo andò in scena quotidianamente per tutto il mese di agosto. Alle dodici e trenta. I numerosi fans non se ne perdevano uno e sarebbero stati pure lieti di pagare il giusto prezzo di un biglietto se non fosse che era tutto gratis et amore dei.

venerdì 19 marzo 2010

Apologia del ranfulo


A voi, voi che siete passati per gli anni '80 con le sue vostre ciabattone di plastica fluorescenti o con zoccoli di legno, voi che non avete disdegnato le ciabattine infradito manco foste stati ninja provetti.


Voi che negli anni '90 avete calzato quegli assurdi ciabattoni in pelle con improbabili sistemi di ancoraggio al pollicione che facevano tanto gay della prima ora.

Voi che ormai seguite la tendenza della ciabatta griffata magari abbinata al vestito.

A tutti voi eccolo. Direttamente dagli anni '70.... il vero e unico ranfulo estivo!

Che dire di questa meraviglia? Simbolo della Favazzina estiva di un tempo, anteposto solo ai peri nudi, dovrebbe essere esposto in qualche museo e, invece, me lo trovo in vendita in un negozio di scarpe nella zona delle grandi occasioni! Non so per quale motivo mi sono astenuto dal comprarlo, ma me ne sono pentito amaramente. Penso che tutti voi, almeno una volta nella vita, abbiate calzato tale elegante accessorio! No???? Parlatene nei vostri commenti.

giovedì 18 marzo 2010




Nella prima foto la vera Ascensione

Nella seconda il tentativo

Saranno stati i miei 98 Kg, sarà stata la mia mancanza di fede, ma non mi sono mosso di un centimetro, nonostante l'aiuto disinteressato degli angeletti cognate.
Pertanto non provateci a farmi vescovo o cardinale, addirittura santo, ho le prove documentate del materialismo autentico, di piombo, antigravitazionale.

mercoledì 17 marzo 2010

"Abbas!...Abbas!"

"(...)I monaci infatti facevano l'arte di Michelasso: mangiare, bere e andare a spasso. Levatisi, la mattina, scendevano a dire ciascuno la sua messa, giù nella chiesa, spesso a porte chiuse, per non esser disturbati dai fedeli; poi se ne andavano in camera, a prendere qualcosa, in attesa del pranzo, a cui lavoravano, nelle cucine spaziose come una caserma, non meno di otto cuochi, oltre gli sguatteri. Ogni giorno i cuochi ricevevano da Nicolosi quattro carichi di carbone di quercia, per tenere i fornelli sempre accesi, e solo per la frittura il Cellerario di cucina consegnava loro, ogni giorno, quattro vesciche di strutto, di due rotoli ciascuna, e due cafissi d'olio: roba che in casa del principe bastava per sei mesi. I calderoni e le graticole erano tanto grandi che ci si poteva bollire tutta una coscia di vitella e arrostire un pesce spada sano sano; sulla grattugia, due sguatteri, agguantata ciascuno mezza ruota di formaggio, stavano un'ora a spiallarvela; il ceppo era un tronco di quercia che due uomini non arrivavano ad abbracciare, ed ogni settimana un falegname, che riceveva quattro tarì e mezzo barile di vino per questo servizio, doveva segarne due dita, perché si riduceva inservibile, dal tanto trituzzare. In città, la cucina dei Benedettini era passata in proverbio; il timballo di maccheroni con la crosta di pasta frolla, le arancine di riso grosse ciascuna come un mellone, le olive imbottite, i crespelli melati erano piatti che nessun altro cuoco sapeva lavorare; e pei gelati, per lo spumone, per la cassata gelata, i Padri avevano chiamato apposta da Napoli don Tino, il giovane del caffè di Benvenuto. Di tutta quella roba se ne faceva poi tanta, che ne mandavano in regalo alle famiglie dei Padri e dei novizi, e i camerieri, rivendendo gli avanzi, ci ripigliavano giornalmente quando quattro e quando sei tarì ciascuno. Essi rifacevano le camere ai monaci, portavano le loro ambasciate in città, li accompagnavano al Coro reggendo loro le cocolle, e li servivano in camera se le LL. PP. si sentivano male, o si seccavano di scendere al refettorio. (…)Distinguevansi i pranzi e i pranzetti, questi composti di cinque portate, quelli di sette, nelle solennità; e mentre dalle mense levavasi un confuso rumore fatto dell'acciottolio delle stoviglie e del gorgoglio delle bevande mesciute e del tintinnio delle argenterie, il Lettore biascicava, dall'alto del pulpito, la Regola di San Benedetto: «... 34° comandamento: non esser superbo; 35°: non dedito al vino; 36°: non gran mangiatore; 37°: non dormiglione; 38°: non pigro...» La Regola, veramente, andava letta in latino; ma al principino e agli altri novizi, aspettando che la potessero comprendere in quella lingua, la spiegavano nella traduzione italiana, una volta il mese. San Benedetto, al capitolo della Misura dei cibi, aveva ordinato che per la refezione d'ogni giorno dovessero bastare due vivande cotte e una libbra di pane; «se hanno poi da cenare, il Cellerario serbi la terza parte di detta libbra per darla loro a cena»; ma questa era una delle tante «antichità» - come le chiamava fra' Carmelo - della Regola. Potevano forse le Loro Paternità mangiare pane duro? E la sera il pane era della seconda infornata, caldo fumante come quello della mattina. La Regola diceva pure: «Ognuno poi s'astenga dal mangiare carne d'animali quadrupedi, eccetto gli deboli et infermi»; ma tutti i giorni compravano mezza vitella, oltre il pollame, le salsicce, i salami e il resto; e in quelli di magro il capo cuoco incettava, appena sbarcato, e prima ancora che arrivasse alla pescheria, il miglior pesce. Molte altre «antichità» c'erano veramente nella Regola: San Benedetto non distingueva Padri nobili e fratelli plebei, voleva che tutti facessero qualche lavoro manuale, comminava penitenze, scomuniche ed anche battiture ai monaci ed ai novizi che non adempissero il dover loro, diceva insomma un'altra quantità di coglionerie, come le chiamava più precisamente don Blasco. Articolo vino, il fondatore dell'Ordine prescriveva che un'emina al giorno dovesse bastare; «ma quelli ai quali Iddio dà la grazia di astenersene, sappiano d'averne a ricevere propria e particolare mercede». Le cantine di San Nicola erano però ben provvedute e meglio reputate, e se i monaci trincavano largamente, avevano ragione, perché il vino delle vigne del Cavaliere, di Bordonaro, della tenuta di San Basile, era capace di risuscitare i morti. Padre Currera, segnatamente, una delle più valenti forchette, si levava di tavola ogni giorno mezzo cotto, e quando tornava in camera, dimenando il pancione gravido, con gli occhietti lucenti dietro gli occhiali d'oro posati sul naso fiorito, dava altri baci al fiasco che teneva giorno e notte sotto il letto, al posto del pitale. Gli altri monaci, subito dopo tavola, se ne uscivano dal convento, si sparpagliavano pel quartiere popolato di famiglie, ciascuna delle quali aveva il suo Padre protettore. Padre Gerbini, la cui camera era piena di ventagli e d'ombrellini che le signore gli davano ad accomodare, cominciava il giro delle sue visite; Padre Galvagno se ne andava dalla baronessa Lisi, Padre Broggi dalla Caldara, altri da altre signore ed amiche. Tornavano all'ave, per entrare in chiesa, ma quelli che venivano un poco più tardi, o a cui doleva il capo, se ne salivano direttamente in camera; e non già per dormire, ché la sera, fino a tre ore di notte, quando si serravano i portoni, c'erano visite di parenti e d'amici, si teneva conversazione, molti Padri facevano la loro partita. Un tempo, anzi, per colpa di Padre Agatino Renda, giocatore indiavolato, c'era stato un giuoco d'inferno: in una sola sera Raimondo Uzeda aveva perduto cinquecent'onze, e più d'un padre di famiglia s'era rovinato; tanto che i superiori dell'Ordine, dopo aver chiuso un occhio su molte marachelle, avevano dovuto finalmente prendere qualche provvedimento. Era appunto allora venuto da Monte Cassino, in qualità di Abate, Padre Francesco Cosenzano, e per un po' di tempo, con l'autorità della fresca nomina, aiutato dai buoni monaci, che non ne mancavano, quel bravo vecchietto era riuscito a infrenare i peggiori; ma, poi, coll'andare del tempo, zitti zitti, a poco a poco, questi erano tornati alle abitudini di prima: giuoco, gozzoviglie, il quartiere popolato di ganze, i bastardi ficcati nel convento in qualità di fratelli - dei Padri - nuovo genere di parentela! E i timidi tentativi di resistenza dell'Abate gli avevano scatenato contro un'opposizione violenta. Don Blasco fu dei più terribili. Egli aveva tre ganze, nel quartiere di San Nicola: donna Concetta, donna Rosa e donna Lucia la Sigaraia, con una mezza dozzina di figliuoli: e l'Abate lasciava correre, sebbene fosse uno scandalo che tutte quelle mogli e quei figliuoli della mano manca, anzi di nessuna mano, venissero a udir la santa messa recitata dallo stesso monaco. Poi, tutte le mattine, egli scendeva in cucina, ordinando che mandassero i migliori bocconi alle sue amiche, e i giorni di magro si metteva sul portone per aspettar l'arrivo dei cuochi col pesce, in mezzo al quale faceva la sua scelta, ordinando: «Taglia un rotolo di questa cernia e portalo a donna Lucia!» E l'Abate lasciava correre. (...)C'erano stati sempre numerosi partiti, a San Nicola; perché, trattandosi d'amministrare un patrimonio grandissimo, e di maneggiare grossi sacchi di denaro, e di distribuire larghe elemosine, e di dar lavoro a tanta gente, e d'accordar case gratuite e posti non meno gratuiti al Noviziato, e d'esercitare insomma una notevole influenza in città e nei feudi, ciascuno ingegnavasi di tirar l'acqua al suo mulino (...)"

lunedì 15 marzo 2010

La benedizione pasquale

La primavera scendeva dolce e festosa dalle colline, prima colorava i castagni, poi le vigne, negli orti appariva qualche macchia di giallo sui nespoli.
Il mare si schiariva in un azzurro pallido, con toni di viola vicino la riva e sulle pietre bianche i da banda a sciumara, veloce scorreva il torrente verso la fine.
La primavera favazzinota.
Era anche il tempo di benedire le case ed il nostro amato prete se le faceva "pare pare", non ne saltava una, dalle prime case di " supra o ponti" alle ultime del rione villa,detto allora "rione indigeno".
Il benedection team era cosi composto:

- il prete che per l'occasione indossava uno scamiciato bianco su tonaca nera, una stola viola ed una specie di papalina a quattro punte con pon pon in cima, sempre viola, pariva un tifoso ra fiorentina
- due bambini chierichetti con sottana bianca e relativi buchi, prodotti dalle tarme e dgli anni, uno portava il seccchiello con l'acqua santa, l'altro portava un foglio per la spunta, non sia mai si saltasse qualcuno
- il sacrestano William, fornito di capace panaro (il bagagliaio di una seicento) con fodera interna, per raccogliere le offerte in natura (ova, satizzi,farina, biscotti, etc), quelle in moneta le intascava direttamente il titolare.
Le nostre mamme che sapevano della visita, facevano trovare le case linde e profumate, a quei tempi non c'erano i prodotti di adesso, saliva forte l'odore di varechina e dell'olio di gomito.
La benedizione avveniva in latino, non c'era stato ancora il Concilio Vaticano Secondo, e pertanto non si capiva una mazza, si andava indietro a quello che diceva il prete imitandone le parole a muzzu, quando faceva le pause o si fermva, bisognava dire amen.
Un piccolo dramma si consumava durante la benedizione, per il solito problema delle dimensioni dell'aspersorio, detto "cipudda", come nei funerali era doccia per tutti, c'era un fuggi fuggi generale, persone, cani, gatti, cercavano riparo al gavettone gelato, anche se santo.
Era una veloce catena di montaggio, preghiera, benedizione, offerta, se qualcuno un pò ticcagnu faciva finta di scordarsi l'offerta, ci pensava William con forti colpi di tosse e scuotendo il panaro.
La riserva d'acqua santa nel secchiello finiva dopo tre o quattro benedizioni, (ci vuliva nu tacciu, ma non era elegante), c'era chi ne approfittava per fare le pulizie di primavera, l'addetto era costretto a ritornare in chiesa a fare rifornimento d'acqua santa.
Spesso però, data la stanchezza, si fermava alla fontana pubblica più vicina e a mucciuni riempiva il secchiello, così invece di benedire con l'acqua santa si benediva con l'acqua di Tremis (la nostra sorgente, per i non favazzinoti)
Era un vero rompimento di palline, na giaculatoria unica, l'unica cosa bella era che vedevi appartamenti che altrimenti non avresti visto mai.
Dentro c'era di tutto, orologi a pendolo argentini, grammofoni e cascittuni americani, cornici appese alle pareti contenenti foto color seppia di gente con gli occhi spiritati e dalle capigliature azzardate, baffoni immensi, camicie inamidate, navi da guerra, matrimoni fino all'ultima cugina, bambini che gattonavano, vecchi rincoglioniti.
Il bambino chierichetto, l'addetto all'acqua santa, si perdeva dentro quelle foto, poi quando sentiva silenzio intorno a se, dice "amen" a voce alta, se no erunu cazzi.




P.S. - questi sono i miei ricordi appannati dagli anni, se dovessero creare problemi di suscettibilità religiosa a qualcuno, me ne scuso anticipatamente.

giovedì 11 marzo 2010

Gara di nuoto Favazzina-Scilla

Dopo la recente scoperta di altarini nascosti e scheletri nell'armadio, il mio maestro si trova in un momento di relativa debolezza concettuale pertanto ne approfitto per raccontare di quella volta che deragliai dai corretti binari dei suoi insegnamenti.
Ci insegnava che il giovane favazzinoto non compete in nessun evento sportivo individuale che nulla può aggiungere all'indiscussa superiorità teorica. La gara di nuoto Favazzina-Scilla come tutte le prove di durata, diceva, è un inutile esercizio simile a una gara per mangiatori di uova sode in una sagra di paese. Il favazzinoto si spara uno sprint molo-ribba ed è tutto, è il migliore e non ha senso andarsene peri peri per l'oceano a dimostrarlo.
Forte di tale assioma avevo resistito al canto delle sirene fino alle ore 15 di Ferragosto. La sirena si chiamava Massimo, aveva deciso di fare quella gara di nuoto e da due mesi si allenava alla Rari Nantes di Reggio, senza apparenti miglioramenti. Continuavo a batterlo su qualsiasi distanza dello sprint, a stile, a rana, a dorso e pure alla Italo (1). Insisteva perché partecipassi alla gara, spronando, ce la puoi fare, denigrando, non ce la farai mai. Resistevo, mi ero legato all'albero e resistevo.
Il pranzo di Ferragosto contempla pasta o furnu con bis, porzione abbondante di parmigiana e polpette al sugo, non meno di sei. Non proprio una dieta da atleta ma per uno che doveva seguire la gara dalla strada nazionale, a piedi, il carico di calorie era adeguato.
Dieci minuti alle 15, scesi in spiaggia. Massimo si era iscritto, i concorrenti si davano l'olio sul corpo, la giuria controllava e le barche al seguito erano pronte per la partenza. Pensai al maestro e convenni sull'inanità di tutti quei preparativi. Massimo si avvicinò e mi disse:
-Si propriu nu cazzuni favazzinotu, va fatti u bagnu nta gebbia-.
Mi tuffai, il maestro mi perdoni, però fuori concorso.
Nuotavo accanto a Massimo, seguendo il suo ritmo. Mi annoiavo, suttafrunti aumentai il numero delle bracciate, avevo energie in esubero -a pastofurnu, penzu- ma l'atleta rarinantes seguiva con la sua solita lentezza, mi toccava aspettarlo e m'incazzavo. Più piano di così anneghiamo, gli facevo presente, ci stanno passando tutti. Lui zitto e nuota. Stavamo seguendo una rotta a naso, a me sembrava di andare un pò troppo al largo, m'informai e fu l'unica volta che parlò: -cusì facimu menu strata. Può essere, io intanto non vedevo manco la riva, solo montagne. Mi sentivo ancora in forze e volevo incrementare -il bis più parmigiana, credo- ma il nuotatore accanto a me non rispondeva alle sollecitazioni.
All'altezza ru Livitu, non era ancora Chianalea, mi salì qualcosa dallo stomaco. Dicono che il colpo del ko per il pugile è un lampo che ti fulmina il cervello e cadi, puoi solo cadere. Io non potevo cadere, galleggiavo, ma il colpo arrivò con la nausea e l'acido in gola -malanova e purpetti, quanto cazzo di aglio ci mettono?- Smisi di nuotare. Massimo andava, anzi ora mi sembrava che andasse di quel po'. Non lo vidi più, non vedevo più niente, solo acqua. Una di quelle situazioni simu a mari cu tutti i robbi. Carmarìa chiatta, nemmeno una qualche rema a trasportarmi come un tronco o anche come uno di quei cosi residuali che galleggiano. Non riuscivo a fare altro che star fermo, facevo il morto. Aspettavo, che cosa dovevo aspettare? una balena che m'inghiottisse, un salvataggio biblico?
Il rumore di un motore. Era un gommone di milanesi villeggianti a Favazzina. Mi videro e mi lanciarono una corda. Mi aggrappai, recuperavo corda per avvicinarmi al gommone e salire quando sentii uno strattone. Pigliai velocità planando sull'acqua. Stavo dividendo il mar Tirreno con l'addome ma mi bruciavano le mani e il costume, mollai la presa. Capirono che era meglio issarmi a bordo. Seduto vicino al guidatore, respiravo con affanno.
-Scusami, pensavo che volessi uno strappo per arrivare al porto di Scilla. Per la gara.
-La gara, che gara? Non sono neanche iscritto.


E Massimo? Bravissimo. Arrivò sesto o settimo, non ricordo. Onore al merito, ma andava piano minchia se andava piano.


(1) Italo è una delle persone più a modo che potete incontrare a Favazzina, sempre gentile, con un' educazione, un aplomb direi inglesi. Grande tifoso della Reggina, sportivo e competente. Per noi ragazzi era un mito quel suo stile di nuoto unico, inimitabile. La testa va tenuta molto alta sull'acqua e deve seguire le bracciate girando a sinistra su braccio destro e viceversa. La bracciata va portata col braccio steso, la mano in estrema flessione dorsale come un saluto fascista talché sarà il polso ad entrare in acqua per primo. Lo stile non produce grande velocità ma il procedere assume l'eleganza del cigno.
Ciao Italo, forza Reggina!

mercoledì 10 marzo 2010

Novità

Non so se avete notato, ma in alto ora c'è una casella di ricerca per trovare quello che volete nel blog!

martedì 9 marzo 2010

L'antico mulino-pastificio


Vi scrivo con l'animo pieno di indignazione e dispiacere, quell'indignazione che ti farebbe urlare, battere i pugni, quel dispiacere talmente forte e profondo che ti fa letteralmente perdere le forze.
Tutto questo è dato dall'ennesima deturpazione, l'ennesima prova del poco rispetto che si ha per Favazzina, per ciò che è e soprattutto ciò che è stata. In alcuni vecchi post si cercava di risalire alle origini di Favazzina, si cercava di dare un'identità attraverso la storia... ebbene, uno che secondo me era un tassello molto importante per la ricostruzione dell'identità di questo paese, è stato cancellato per sempre, è stato abbattuto parte dell'antico mulino-pastificio! Una delle due saette infatti non c'è più. Quello che era davvero un bene storico, un mulino risalente al '700 che appartenne alla famiglia Ruffo e sul quale non tutti sanno (proprio nella saetta ormai scomparsa) vi era un graffito recante l'anno e la raffigurazione di un altro forte simbolo del paese, la Santa Croce, è ormai mutilato.
Mutilato non solo architettonicamente parlando, ma nella sua essenza, nella sua storia indissolubilmente legata tramite varie anastomosi alla storia di Favazzina e delle sue genti.
Sono tanti i pensieri che affollano la mia testa in questo momento, tante le cose che vorrei scrivere ancora, ma sono soffocate dalla fine di una speranza di riqualificazione del sito che meritava la giusta importanza.
Se ne va un altro pezzo di storia di Favazzina, se ne va nell'assordante silenzio dei suoi abitanti.

Decreto legge interpretativo

«La situazione politica in Italia è grave, ma non seria».
«Gli italiani corrono sempre in aiuto del vincitore».


«Gli italiani sono irrimediabilmente fatti per la dittatura».

«Fra 30 anni l’Italia non sarà come l’avranno fatta i governi, ma come l’avrà fatta la televisione».

«L’italiano è un tentativo della natura di smitizzare se stessa. Prendete il Polo Nord: è abbastanza serio, preso in sé. Un italiano al Polo Nord vi aggiunge subito qualcosa di comico, che prima non ci aveva colpito».

«In Italia la linea più breve fra due punti è l’arabesco». 

«In questo paese che amo non esiste semplicemente la verità. Altri paesi hanno una loro verità. Noi ne abbiamo infinite versioni». 

«In Italia i fascisti si dividono in due categorie: i fascisti e gli antifascisti». 

«Per gli italiani l’inferno è quel posto dove si sta con le donne nude e con i diavoli ci si mette d’accordo». 

«Oggi anche il cretino è specializzato».

«Ho poche idee, ma confuse». 

«Il sognatore è un uomo con i piedi fortemente appoggiati alle nuvole».


VOTA FLAIANO

lunedì 8 marzo 2010

U Longu e il vescovo

Il paese era in fermento come da tempo non si vedeva e la chiesa era tutta parata a festa.
Le pie donne, quelle del famoso e variegato coro, con un impegno davvero lodevole, l’avevano tirata lucida come uno specchio e addobbata con splendidi fiori, soprattutto calle e rose rosse.
L’indomani, la seconda domenica di maggio, il vescovo di Reggio, l’indimenticato Giovanni Ferro, sarebbe venuto a impartire la Cresima nella nostra parrocchia ai nuovi cresimando.
Il giorno dopo terminata la funzione e in attesa del santuoso pranzo che la moglie del delegato A. B. aveva preparato in suo onore, il vescovo si era soffermato all’uscita dalla chiesa, a ricevere gli omaggi e a dare la benedizione ai fedeli accorsi numerosi.
Vi era una calca indescrivibile e tutti facevano a gara per essere i primi a baciare il grosso anello che il vescovo elargiva con benevolenza.
Solo uno se ne stava in disparte, incurante di quel che accadeva lì sulla piazza, pensando esclusivamente ai cazzi suoi e precisamente al pilivermo da 12 e a una moretta che da un po’ di tempo, gli faceva perdere il sonno: u Longu.
Il vescovo parve accorgersi di quel ragazzo allampanato che non lo cagava manco di striscio e facendogli cenno di avvicinarsi, gli chiese come mai non partecipava, come gli altri ai festeggiamenti.
U Longu niente affatto impressionato dall’imponente figura del vescovo (era più alto di lui) gli rispose che ormai da tempo non credeva più in Dio.
Al prete, don Rocco, per poco non gli venne un colpo e guardando u Longu con disprezzo non riuscì a celare l'odio e pensò che tutte le noccate che gli aveva dato in testa, evidentemente non erano bastate.
Le suore e le numerose beghine intorno al vescovo subito si segnarono come per scacciare quel demone che improvvisamente si era materializzato vicino a loro.
Il vescovo fu il solo che rimase sereno e sfoderando un sorriso benevolo, prese sotto braccio u Longu e incamminandosi come due vecchi amici, gli chiese come mai avesse perso la fede.
Il Dio misericordioso al quale gli avevano sempre detto di credere, secondo quanto aveva appreso dal vecchio testamento, così misericordioso non era poi stato e gli ricordò di Noe e del diluvio universale, di Sodoma e Gomorra, dove Dio, appunto, non era stato affatto clemente con chi aveva commesso dei peccati.
Il vescovo con tono pacato cercò di convincerlo sulle ragioni che avevano indotto Dio ad agire in quella maniera e, seguitando a camminare, andarono avanti a discutere su altri argomenti religiosi, secondo u Longu, abbastanza contraddittori.
Si era formato intanto uno strano corteo, il vescovo e u Longu a braccetto, io dall’altro lato del vescovo e, dietro di noi, il parroco, il delegato, le suore e a seguire tutti gli altri.
Percorremmo buona parte del paese sempre col vescovo che cercava di redimere u Longu, di riportare la pecorella smarrita all’ovile, con lui che ribatteva colpo su colpo, ed io che ogni tanto cercavo di intervenire appoggiando le tesi ru Longu (anche la mia fede cominciava ad avere qualche scricchiolio), mentre il prete schiumando rabbia cercava continuamente di cambiare discorso, cercando di far desistere u Longu nel dire eresie.
La magnifica domenica che chissà da quanto tempo aveva sognato di passare insieme al vescovo, si stava rivelando un fallimento e tutto per colpa di un senza Dio, di uno, che era bene ricordare ancora, quando aveva avuto l’occasione, non gliene aveva saputo dare abbastanza.
Al contrario fu una giornata memorabile pu Longu, poiché tra la stizza e l’invidia dei benpensanti, era riuscito, senza cercalo, ad attirare, interamente su di se, l’attenzione del vescovo, di quel vescovo che forse, chissà, ha avuto un ruolo importante nella sua formazione religiosa (leggo testualmente in un commento nta Nuvena ”Mario non ci rimane che la religione, ed è pura”).

domenica 7 marzo 2010

Salutamu

Un saluto a tutti gli amici di Favazzina blog! Iscrizione appena effettuata, ma in realtà seguo il blog da sempre, tanto che il mio "nick-name", non sapendo quale scegliere, deriva da un vecchio simpaticissimo post di "Arcade fire", la mia autoironia dunque mi ha suggerito questo... ed eccomi qua.. ciao "Bachino".
Un grazie a U Grecu per l'invito, consentendomi così di entrare a far parte del blog.
A presto..... Salutamu!!!

venerdì 5 marzo 2010

'A spasa ri pasti

La spasa era un miracolo di geometria, architettura e poesia. Incasellati su tre file per sei colonne diciotto pasti si tenevano l'uno con l'altro. La linguetta rettangolare di cartone formava un cupolino protettivo affinchè le creme non venissero a contatto con la carta che avvolgeva i pasti. Un nastrino rosso riccioluto rifiniva la confezione e l'anello apposito permetteva il trasporto senza danni. Prendemmo diciotto pasti per la regola che li vuole o dispari o multipli di dozzina, come le rose e come rose fresche aulentissime apparivano.
Il festeggiato ringraziò e dopo aver scartato prese un pasto dalla prima colonna, assaggiò. Masticò e subitaneamente gli venne uno spasmo facciale. Non disse nulla, un signore. La moglie del festeggiato si accomodò alla colonna opposta, assaggiò e fece una smorfia malcelata. Come il marito, una signora. Al quarto, quinto assaggio di altri volenterosi finalmente qualcuno ebbe il coraggio di dire:
-Sti pasti sunnu mucati, si citiaru.
Tra i vabbonu non ci faci nenti, cunta u pinzeru e i nd'annu a futtiri a nui sti bagnaroti del cazzo? prevalsero questi ultimi, dieci minuti dopo eravamo davanti al proprietario della pasticceria, alla cassa.
-Questi pasti sono avariati.
-Non se ne parla nemmeno, sono freschi di giornata.
-Ne abbiamo provati cinque, sunnu tutti citiati.
Abbiamo solo roba freschissima diceva mentre prendeva un dito d'apostolo dalla nostra spasa e in tre muzzicate lo finiva, tutte le mattine facciamo la crema come questa del sospiro di monaca, tre muzzicate e la monaca sparì, questo viennese per esempio facciamo l'impasto giorno per giorno, pure il viennese sparì, a ciucculata di questo bignè solo cacao del migliore, lo finì con la solita tecnica delle tre muzzicate. La stessa sorte riservò a un cannolo e a un millefoglie. Ci restituì la spasa con tanti saluti al cliente che ha sempre ragione.
Non ci potevo credere, si mangiau sei pasti da un quarto di chilo ciascuno e a noi non restò altro che tenere la spasa decimata nei suoi ranghi. La gettammo nel primo bidone della spazzatura sul corso di Bagnara. Incazzati ci consolavamo con la vendetta che certamente sarebbe arrivata sotto forma di dogghia colica, immaginavamo lavande gastriche e clisteri evacuativi, forse anche un ricovero nel reparto di gastroenterologia del Riuniti di Reggio.
Il giorno dopo entrai in quella pasticceria di Bagnara con l'apprensione di chi cerca conferma.
C'era. Seduto alla cassa, batteva scontrini e incassava danaro. Rasato di fresco, il colorito rosa dorato: un cornetto appena sfornato. Uscii senza consumare, dovevo riflettere su quegli organi interni da competizione: uno stomaco foderato d'acciaio inox e buredda meglio di un inceneritore di ultima generazione. Di più però mi affascinava la difesa senza resa dei suoi ideali. L'astio andava scemando e cominciavo ad ammirare quell'uomo. La stessa ammirazione che ho provato per Socrate quando bevve la cicuta.

mercoledì 3 marzo 2010

A nuvena

Era di maggio, il mese mariano, ogni sera nella piccola chiesa del paese c'era a "nuvena" da Madonna, ed un coro formato dalle donne favazzinote, intonava, per modo di dire, canzoni di laudi alla predetta.
Il coro era accompagnato da un vecchio organo con annessi pedali, suonato dal prete, detto don Giuvanni Sebastianu, famoso per le toccate e fughe, più le seconde delle prime, specialmente se ad ascoltare c'era qualcuno con un minimo di cognizione musicale.
Non era tutta colpa sua, metà dei tasti non funzionavano od erano ininfluenti, il cigolio dei pedali che davano aria all'organo superava il rumore della musica.
Si, la musica era rumore, una cosa favazzinota, arte pura. Futurismo.
Ogni tanto i pedali s'incastravano con la tonaca del prete e non arrivando più aria l''organo moriva lentamente, almeno avrebbe voluto, ma Johann Sebastian lo riprendeva pestando forti chi peri, carcagnati da predetta.
Una lenta agonia per asfissia, con riprese immediate, un organo ca silicosi.
Quando finiva di suonare Johann Sebastian era stanco e sudato come se avesse zappato tutti l'orti ra 'Nchiusa.
Pare, e dico pare, che il vero J.S. Bach, ad una ispezione della tomba (sentivano dei rumori) avesse fatto diverse capriole con carpiato finale dentro la stessa.
Passiamo al coro
Mia madre ne faceva parte, una Maria Callas della musica sacra, le mancava solo il naso e qualche corda.
Era un coro democratico nel senso che era aperto giustamente a tutte, sia alle intonate che a quelle che facevano crollare i muri, per appartenervi contava la devozione non l'ugola.
Il risultato era eclatante, effetto mare-monti, il canto variava tra il bandiamento di pesci alla bagnarota ed il canto di alpini ubriachi.
Naturalmente ognuno pi fatti soi, sano individualismo musicale.
L'organo era situato sulla sinistra dell'altare, vicino all'ingresso della sacrestia, noi bambini in piedi accanto al maestro di cappella che rovistava tra i tasti.
Curioso com'ero volli pigiare un tasto dello strumento, uno di quelli laterali, defilato, giallognolo, sicuramente non funzionante.
Cazzo funzionava, ne uscì fuori un suono che somigliava vagamente ad una pernacchia.
Johann mi fulminò con lo sguardo e continuò a rovistare, in mezzo a quel baiallame nessuno ci aveva fatto caso, lo sapevamo solo io e lui.
Finita la messa, in sacrestia, mi diede un colpo in testa con le nocche delle dita, un dolore terrificante, le stelle dell'Orsa grande e piccola.
Avevo sciupato l'esecuzione, stava registrando Pollini.
Secondo me, Johann Sebastian ed il coro, hanno avuto forti responsabilità sulla stabilità della chiesa, intesa come edificio.
Però che ricordi bellissimi, il profumo delle rose, dei gigli, delle mimose, dei ginepri che ornavano l'altare e poi un senso di pace, di serenità,le canzoni favolose, ne ricordo ancora qualcuna:
"Mira il tuo popolo o bella Signora che pien di giubilo oggi ti onora....",

Il mimo


Carmelu e Pascali

Minchia Melu, e chistu cu è? Non sacciu Pascali, avi na faccia comu a chidda i me cuginu Sasà quandu mangia ficazzani. Non ci piaciunu? Ci piaciunu ma si mangia ca scorcia. E pirchì? Le vitamine sono nella buccia, nci rissi u merucu. Ma è propriu nu stortu. Cui, me cuginu? No, u merucu.


Don Pepè e il commendatore

Vi dico che rappresenta una sfinge, cazzulatina! Ma facitimu u cazzu ru piaciri, commendatori, chiddu esti nu faraoni d'Egittu. Azzu, don Pepè, non sapiva che venivate da scuole alte. Vegnu ra terza elementari, comu a vui. Come ti permetti, paddeco, io sono un titolato per meriti economici nel lavoro. A parti u fattu chi non lavurasti 'n jornu nta to vita. Cafone! A parti u fattu chi sordi nci futtisti e to parenti. Mentitore! Tu hai nu sulu titulu. Sentiamo, voglio proprio sentire. Tu, commendatore, si nu sceccu carricatu i sordi.


Marcella e la mamma.

Marcella hai diciassette anni, non puoi andare in giro così poco vestita. Mami, qua è caldo, quando ritorniamo a Sondrio mi rivesto. Eilà, questo signore chi è? Bello mami, tutto d'oro, sembra un modello di D.&G. Che stiano preparando una sfilata di moda? Non so mami, senti come è setosa questa stoffa, che piacere accarezzarla. Pure decisamente duroelastica, allontanati Marcella, andiamo.


Gli intellettuali

Contesto a partire dal titolo, mimo è impreciso. Non condivido, esprime pur nella staticità il linguaggio del corpo. Staticità è corretto per questo non direi mimo ma statua vivente o meglio tableau vivant. Collega, se è statua non è quadro. Collega, sei troppo schematico. Tu troppo disinvolto. So vedere le sfumature. Razionalmente, se vedessi di andare fanculo? No, grazie collega, mi fido del tuo empirismo.


Opinioni in ordine sparso

Pi mia è u Mister chi faci pubblicità o Lidu. Io dico che è una performance dell'artista Malumbra. Forse è Ninu Chinnu che ha cambiato costume di carnevale. Che sia Antonio rovinato dalle tasse e che ora lavora per Disney? No ieu ricu che è Arcade, non ha più nulla da dire e si sta sparandu l'urtimi cartucci. Per me sono due, uno è Nino ficonsgi, l'altro è tipo scuola di polizia, hai presente?


La lapa

Scusati bonomu, vi putiti canziari che devo passare? AIU PIRA, PUMA, PUMARORU PA NZALATA, CIPUDDI...