Benvenuti a Favazzinablog

Finalmente, dopo anni che ho in mente di farlo, ho deciso di aprire questo piccolo blog su Favazzina. L'obiettivo è quello di creare una comunità virtuale delle varie persone che negli anni hanno preso parte alla vita della nostra mitica Favazzina in modo che, almeno attraverso internet, possano sentirsi e non perdere i contatti, ma anche quello di scrivere e non dimenticare le varie storie che per tante estati ci hanno fatto morire dalle risate.
Se vi va di partecipare potete contattarmi su skype (mauro.fuca) o scrivere un commento anonimo al blog (scrivete in ogni caso la vostra email) così vi faccio diventare autori del blog e potrete darmi una mano.
Salutamu!
UGRECU

venerdì 18 ottobre 2013

La donna nella vendemmia

Calzavano scarpe di suola dura. Purtavunu cofani i racina supra a testa, meglio di Salimi (campione mondiale di sollevamento pesi), senza dubbio
Erano fimmini, donne semplici, nessuno era più costante di loro. Avevano un collo forte ed elegante chi parivunu le gemelle Kessler.
Armati di coraggio ed equilibrio, pirchì curaggiu ed equilibrio nci voli mi si nchiana e scindi ri scaluni  ra vigna cu quaranta chili supra a testa. Si prestavano per tutte le vendemmie ru paisi. Si, tutti se le ricordano bene "i fimmini cu cofanu in testa". Sudate, stanche e cu na curuna i stoffa nte mani.
Salivano e scendevano fino sfinirsi. Persino Salimi ha dovuto ammettere che erano più forte di lui. Ma non poteva durare, anche loro, come le vigne si estinsero.

mercoledì 9 ottobre 2013

Proverbi - La vigna, la vendemmia, il vino

A butti si sparagna quandu é chjina, quandu é vacanti si sparagna sula.
Si risparmia il vino della botte quando è ancora piena, quando è vuota sarà troppo tardi.

A ggutti a ggutti si sbacanta a bùtti.
Goccia a goccia si finisce il contenuto della botte.

Aja e parmentu, omani centu.
Nell’ aia e nel palmento devono lavorare molti uomini.

A santu Martinu caccia ll'acqua e menti 'u vinu.
A San Martino metti da parte l'acqua e bevi il vino nuovo

A santu Martinu 'u fravuledu è vinu.
Per S. Martino il fragolino è maturo.

A tempu i racina e ficu, non c'è né cumpari e né amicu.
In tempi di raccolta non c'è compare né amico.

A vigna è tigna.
La vigna è difficile da governare.

Cu havi na bona vigna havi pani, vinu e ligna.
Chi ha una buona vigna, ha pane, vino e legna.

Cu’ simina ‘nta vigna, non meti e non ‘vindigna.
Chi semina nella vigna, non miete e non vendemmia.

Cu zzappa, zzappa a so vigna, bona sa zzappa e bona sa vindigna.
Chi zappa, zappa la propria vigna, se la zappa bene, la ven-demmia bene.

E' megghiu sucu 'e vinazzu e nno acqua 'e critazzu.
Anche se non è buono, il vino è sempre da preferire all'acqua.

O malu zappaturi, non ci piaci u marruggiu.
Al cattivo zappatore (inteso come chi non ha voglia di fare) gli da fastidio il manico della zappa.

Pani e vinu rinforzunu a schina.
Pane e vino rinforzano la schiena.

Pani i nu iornu, vinu i n'annu e cotrara i quindicianni.
Pane di un giorno, vino di un anno, ragazza di quindicianni

Paru cu sò paru e tajgghia paru, com'è a viti menti u palu.
Il pari va con il suo pari perciò come è la vite metti il palo.

Poveru zappaturi, zappa zappa, dinari nto stuìa-bùcca non d'attacca.
Il povero zappatore, lavora lavora, ma sempre povero rimane.

Quandu è fattu u muru i spina va ddunati a recina.
Quando è tempo delle more bisogna controllare l'uva.

Quandu Giuanni vindigna Petru menti i pali.
Quando Giovanni vendemmia Pietro mette i pali.

Quandu u vinti i marzu trona a racina veni bona.
Quando tuona il 20 marzo l'uva sarà di ottima qualità.

Rrobba i sciumara, vigna i costera.
Roba di fiumara, vigna di costiera.

Sempri tri butti nci faci a vigna.
La vigna gli produce sempre tre botti.

U bonu pani è finu a pezza, u bonu vinu è finu a fezza.
L'ottimo pane è buono fino all'ultima mollica e l'ottomo vino è buono fino all'ultima goccia.

U vinu 'a vita allonga, ll'acqua accurcia ll'anni.
Il vino allunga la vita, l'acqua l'accorcia.

U vinu è nimicu chi agisci a tradimentu.
Il vino è un nemico ce agisce a tradimento.

U vinu ijancu fin'a fezza.
Il vino bianco va bevuto fino al residuo.

U vinu jesti 'u sangu 'i ll'omu.
Il vino è il sangue dell'uomo.

Zappari a vigna vecchia e tempu persu.
Zappare la vigna vecchia è tempo perso

lunedì 7 ottobre 2013

Com’eravamo: la vendemmia

Mio padre mi chiamava nel cuore della notte «Mimmo, alzati ch'è ora».
C'era d'andare al palmento a completare il lavoro che io avevo iniziato all'alba, e la sua voce mi giungeva lontana, come in un sogno.
Mia nonna, che dormiva con me nella stessa stanza, udito mio padre, continuava a chiamarmi con tono monotono, ininterrotto «Mimmo, Mimmo, Mimmo».
La sua voce stridula mi entrava nel cervello e riusciva in fine a svegliarmi. Mi alzavo dal letto ancora assonnato e non so dire come riuscissi a vestirmi.
I miei gesti erano quelli di un automa, privi di volontà. Camminavo e agivo come un sonnambulo e credo che dormissi in piedi veramente.
La notte era tranquilla, turbata soltanto da un'aria gelida che veniva giù dai monti e faceva rabbrividire, obbligandomi a tenere gli occhi aperti, così da riuscire a destarmi.
Arrivavamo al ponte infreddoliti ed entrando nel palmento, il piacevole tepore che vi trovavamo, ci riscaldava un po’.
L'aria all'interno era satura dell'odore del mosto in fermentazione, ed io respirandone i vapori ero in un leggero stato d'ebbrezza, che mi dava le vertigini.
Al palmento non vi era la corrente elettrica e mio padre per rischiarare accendeva il lume a olio e la candela posta sulla finestra e la fiammella tremolava per gli spifferi che penetravano attraverso le fessure delle imposte.
Intanto io, dopo essermi levato le scarpe, a piedi nudi entravo nella vasca, immergendoli fino alle ginocchia, nel mosto tiepido per effetto della fermentazione e dopo aver spostato la vinaccia, appoggiavo contro la parete, davanti al pertugio, una cesta a fare da filtro, serviva quando mio padre rimasto fuori dalla vasca toglieva il grosso tappo, a trattenere graspi, bucce e vinaccioli.
Il mosto liberato, ribollendo finiva dentro al pozzetto, ed io col forcone allontanavo i graspi dal "filtro" per consentire al mosto di scorrere meglio.
Quando lo scolo si esauriva, rimaneva sul fondo della vasca la vinaccia imbevuta di mosto e noi la mettevamo nel torchio e la pigiavamo ancora.
Attaccati alla sbarra giravamo intorno ad un grosso palo che ruotava, per la spinta, su un perno conficcato nel pavimento.
La corda si tendeva e si avvolgeva al palo, muovendo la stanga, alla quale era legata. Il piano superiore del torchio, la chiocciola, una specie di madrevite, si avvitava al corpo del torchio, la parte verticale con la vite, esercitando così una forte pressione sulla vinaccia. Finché come dicevamo in gergo,”il torchio piangeva”, ossia spuntava il mosto.
Il continuo girare e la fatica mi mettevano addosso la nausea e mio padre vedendomi bianco in volto mi incitava «Dai è l'ultimo giro, ancora uno sforzo» ma non era mai l'ultimo giro.
Eseguivamo l'operazione varie volte, fino a quando non era uscita anche l'ultima goccia di mosto, lasciando la vinaccia completamente asciutta.
A mezzogiorno mia madre arrivava da casa con un canestro in testa, nel quale vi era il pranzo che aveva preparato per l'occasione, stoccafisso in umido con patate e olive verdi, e inoltre pane di grano.
Improvvisavamo la mensa con un banco di legno e delle vecchie sedie, nello spiazzo davanti al palmento, ed era la fame o la grande stanchezza, ma quella parca mensa mi pareva quella di un re.
Consumavamo in fretta quel pasto frugale e rimanevamo ancora seduti il tempo che mio padre fumasse una sigaretta.
Infine tiravamo su il mosto dal pozzetto usando una pompa a stantuffo, azionata a mano e riempivamo le botti nella cantina lì vicino.
Quando il sole era ormai tramontato e calavano già le prime ombre della sera, quella lunga e faticosa giornata era finalmente terminata.
E per sapere se tutto il lavoro svolto, ci avrebbe ripagato, si doveva aspettare San Martino, quando mio padre spillava le botti ed assaggiava il vino.
Avvicinava il bicchiere al naso per sentirne l'odore, guardava controluce per vedere il colore, dava un sorso e con soddisfazione e un pizzico di orgoglio, schioccando la lingua esclamava «Uhm! Anche quest'anno è proprio buono».

martedì 1 ottobre 2013

Pittura e vino ovvero arte e degustazione

Domenica 29 settembre insieme a mia moglie, mio figlio e la sua ragazza, siamo andati a vedere i lavori che la nostra amica e compaesana Enza Benedetto esponeva presso l’azienda agricola Ugo Vezzoli a San Pancrazio di Palazzolo S/O, in occasione del Festival Franciacorta che si tiene annualmente.
Voglio precisare che, essendo noi degli estimatori di Enza, è stato questo il motivo principale che ci ha spinto ad accettare l’invito in modo da poter ammirare i suoi lavori, oltre naturalmente a visitare l’azienda e scoprire i vini che produce.
Al nostro arrivo presso l’azienda siamo stati accolti con estrema gentilezza dai proprietari, i fratelli Vezzoli, e calorosamente da Enza e Fabio, il marito, che forse non si aspettavano una nostra visita.
Dapprima, uno dei fratelli Vezzoli ci ha illustrato, brevemente, la storia dell’azienda, dalle sue origini intorno al ‘500 e delle continue mutazioni che negli anni ha subito fino ai giorni nostri, invitandoci poi a seguirlo per farci conoscere dove e come nascono i loro vini, dalle cantine fino ai vigneti, attraverso contenitori di acciaio inox, botti di rovere e migliaia di bottiglie, circa ventimila, in attesa di lavorazione o pronte per essere bevute.
Lungo il percorso si potevano ammirare i quadri di Enza, da il “Podere” esposto proprio all’ingresso, o a “Terra fertile” e “Acqua vitale” sotto il porticato e, proseguendo “Terreno coltivato”, “Orti lontani” e “Orti vicini”, “Frammenti di terra e cielo”, “Frammenti di terra e cielo d’Oriente” e “Oasi nel deserto”.
Prima di scendere in cantina, sul muro accanto alle scale, “Aspettando il raccolto” e “Terra rossa”, mi hanno lasciato senza fiato, due opere stupende a mio modesto parere.
Scendendo giù, in alto sulla parete, spiccava, “Il grano” e prima di entrare nella cantina attirava subito lo sguardo “Dopo il raccolto”, altra opera davvero intensa, infine all’interno, tra le botti di rovere e i muri pregni di muffa, “Uva rossa”, una spirale da favola.
Tutte opere tratte dal ciclo “Frammenti di terra e cielo” e mai connubio fu così azzeccato, poiché i quadri si integrano perfettamente con quelle che sono le finalità dell’azienda, ovvero la produzione del vino, con un percorso parallelo, dalla lavorazione della terra (Terra fertile e Terra rossa), alla coltivazione della vite (Terreno coltivato), all’uva (Uva rossa) e infine al raccolto (Aspettando il raccolto e Dopo il raccolto).
Alla fine del percorso siamo tornati sotto il porticato e il Vezzoli ci ha invitato a degustare i loro vini, dal rosso Barricato, un vino favoloso, al Rosè, al Saten e al Millesimato, questi ultimi, spumanti eccezionali e ad assaggiare dei prodotti locali, come una sorta di bresaola della zona, la carne salata tipica del bresciano, prosciutto cotto affumicato, formaggi vari e delle alici sott’olio provenienti dalla Spagna, tutto buonissimo.
Dato che i visitatori arrivavano in continuazione, dopo aver comprato due bottiglie di vino rosso, due di spumante Rosè e due di Saten, abbiamo salutato e ringraziato i fratelli Vezzoli per l’ottima accoglienza e accompagnati alla macchina da Enza, Fabio e Mariella che, insieme al marito e ai figli, era giunta nel frattempo, anche se un po’ allegri, per non dire brilli almeno io, abbiamo fatto ritorno a casa.
Devo dire che abbiamo trascorso un pomeriggio davvero speciale, in un posto stupendo, tra quadri bellissimi (quest’ultima fatica di Enza merita di essere vista) e vini favolosi, a facci i cu non vinni.