Benvenuti a Favazzinablog

Finalmente, dopo anni che ho in mente di farlo, ho deciso di aprire questo piccolo blog su Favazzina. L'obiettivo è quello di creare una comunità virtuale delle varie persone che negli anni hanno preso parte alla vita della nostra mitica Favazzina in modo che, almeno attraverso internet, possano sentirsi e non perdere i contatti, ma anche quello di scrivere e non dimenticare le varie storie che per tante estati ci hanno fatto morire dalle risate.
Se vi va di partecipare potete contattarmi su skype (mauro.fuca) o scrivere un commento anonimo al blog (scrivete in ogni caso la vostra email) così vi faccio diventare autori del blog e potrete darmi una mano.
Salutamu!
UGRECU

lunedì 7 ottobre 2013

Com’eravamo: la vendemmia

Mio padre mi chiamava nel cuore della notte «Mimmo, alzati ch'è ora».
C'era d'andare al palmento a completare il lavoro che io avevo iniziato all'alba, e la sua voce mi giungeva lontana, come in un sogno.
Mia nonna, che dormiva con me nella stessa stanza, udito mio padre, continuava a chiamarmi con tono monotono, ininterrotto «Mimmo, Mimmo, Mimmo».
La sua voce stridula mi entrava nel cervello e riusciva in fine a svegliarmi. Mi alzavo dal letto ancora assonnato e non so dire come riuscissi a vestirmi.
I miei gesti erano quelli di un automa, privi di volontà. Camminavo e agivo come un sonnambulo e credo che dormissi in piedi veramente.
La notte era tranquilla, turbata soltanto da un'aria gelida che veniva giù dai monti e faceva rabbrividire, obbligandomi a tenere gli occhi aperti, così da riuscire a destarmi.
Arrivavamo al ponte infreddoliti ed entrando nel palmento, il piacevole tepore che vi trovavamo, ci riscaldava un po’.
L'aria all'interno era satura dell'odore del mosto in fermentazione, ed io respirandone i vapori ero in un leggero stato d'ebbrezza, che mi dava le vertigini.
Al palmento non vi era la corrente elettrica e mio padre per rischiarare accendeva il lume a olio e la candela posta sulla finestra e la fiammella tremolava per gli spifferi che penetravano attraverso le fessure delle imposte.
Intanto io, dopo essermi levato le scarpe, a piedi nudi entravo nella vasca, immergendoli fino alle ginocchia, nel mosto tiepido per effetto della fermentazione e dopo aver spostato la vinaccia, appoggiavo contro la parete, davanti al pertugio, una cesta a fare da filtro, serviva quando mio padre rimasto fuori dalla vasca toglieva il grosso tappo, a trattenere graspi, bucce e vinaccioli.
Il mosto liberato, ribollendo finiva dentro al pozzetto, ed io col forcone allontanavo i graspi dal "filtro" per consentire al mosto di scorrere meglio.
Quando lo scolo si esauriva, rimaneva sul fondo della vasca la vinaccia imbevuta di mosto e noi la mettevamo nel torchio e la pigiavamo ancora.
Attaccati alla sbarra giravamo intorno ad un grosso palo che ruotava, per la spinta, su un perno conficcato nel pavimento.
La corda si tendeva e si avvolgeva al palo, muovendo la stanga, alla quale era legata. Il piano superiore del torchio, la chiocciola, una specie di madrevite, si avvitava al corpo del torchio, la parte verticale con la vite, esercitando così una forte pressione sulla vinaccia. Finché come dicevamo in gergo,”il torchio piangeva”, ossia spuntava il mosto.
Il continuo girare e la fatica mi mettevano addosso la nausea e mio padre vedendomi bianco in volto mi incitava «Dai è l'ultimo giro, ancora uno sforzo» ma non era mai l'ultimo giro.
Eseguivamo l'operazione varie volte, fino a quando non era uscita anche l'ultima goccia di mosto, lasciando la vinaccia completamente asciutta.
A mezzogiorno mia madre arrivava da casa con un canestro in testa, nel quale vi era il pranzo che aveva preparato per l'occasione, stoccafisso in umido con patate e olive verdi, e inoltre pane di grano.
Improvvisavamo la mensa con un banco di legno e delle vecchie sedie, nello spiazzo davanti al palmento, ed era la fame o la grande stanchezza, ma quella parca mensa mi pareva quella di un re.
Consumavamo in fretta quel pasto frugale e rimanevamo ancora seduti il tempo che mio padre fumasse una sigaretta.
Infine tiravamo su il mosto dal pozzetto usando una pompa a stantuffo, azionata a mano e riempivamo le botti nella cantina lì vicino.
Quando il sole era ormai tramontato e calavano già le prime ombre della sera, quella lunga e faticosa giornata era finalmente terminata.
E per sapere se tutto il lavoro svolto, ci avrebbe ripagato, si doveva aspettare San Martino, quando mio padre spillava le botti ed assaggiava il vino.
Avvicinava il bicchiere al naso per sentirne l'odore, guardava controluce per vedere il colore, dava un sorso e con soddisfazione e un pizzico di orgoglio, schioccando la lingua esclamava «Uhm! Anche quest'anno è proprio buono».

5 commenti:

Galanti ha detto...

Bravo Mimmo,
mi hai fatto rivivere dei bei ricordi.
Sarebbe bello recuperare qualche foto delle vecchie vendemmie e di tutti quegli strani arnesi che si usavano nei palmenti e nelle cantine.
Te la ricordi la picarizia ?

Spusiddha ha detto...

Cao Francesco, visto che il Blog lanque, ogni tanto cerco di scivere qualcosa per spronare anche gli altri a fare qualcosa per non farlo morire.
Riquardo la vendemmia foto purtroppo non ne ho, però se ti capita di andare al palmento al ponte, anche se ormai vecchi, troverai diversi arnesi che venivano usati per fare il vino.
Sinceramente mi cogli impreparato perchè non so cos'è la picarizia, o almeno la conosco sotto un'altro nome, fammi sapere.

Galanti ha detto...

Io dovrei avere qualche foto a Favazzina.
Appena possibile le caricherò sul blog.
La picarizia era quello strano imbuto di legno che serviva per riempire le botti quando il trasporto del mosto veniva fatto con i barili di legno. Negli ultimi anni il trasporto dal palmento alle cantine avveniva invece con una pompa elettrica.
E' strano descrivere la picarizia perché aveva una forma a tronco di cono con un'apertura molto larga e alla base aveva tre sostegni che dovevano poggiare e adeguarsi alla curvatura della botte.
Mi ricordo che l'unità di misura delle botti erano i "barriddhi" ognuno dei quali conteneva 44 litri di mosto.

u'longu ha detto...

Bella Spusidda.
In quel palmento quanto lavoro e fatica, c'erano strumenti e metodologie del medio evo.
In compenso ti ricordi i ranati dell'officina ? quelli che si spaccavano mentre maturavano.
Francesco la picarizza, se non ricordo male, era una grande imbuto di legno con base molto larga, appoggiata sulla botte serviva a svuotare i barili dentro.

Spusiddha ha detto...

Bentornato Longo!
Ricodo benissimo lo strumento, ma non ricordavo il nome.
Ho ancora un'immagine molto nitida dei miei zii, Peppe e Nino (il padre ru longu) mentre traspotavano i barili sulla schiena e poi, aiutati da mio padre, mentre li appoggiavano sulla picarizza per riempire le botti.
Che meraviglia i ranati i l'officina, credo i più buoni di tutta Favazzina.