Benvenuti a Favazzinablog

Finalmente, dopo anni che ho in mente di farlo, ho deciso di aprire questo piccolo blog su Favazzina. L'obiettivo è quello di creare una comunità virtuale delle varie persone che negli anni hanno preso parte alla vita della nostra mitica Favazzina in modo che, almeno attraverso internet, possano sentirsi e non perdere i contatti, ma anche quello di scrivere e non dimenticare le varie storie che per tante estati ci hanno fatto morire dalle risate.
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Salutamu!
UGRECU

mercoledì 17 marzo 2010

"Abbas!...Abbas!"

"(...)I monaci infatti facevano l'arte di Michelasso: mangiare, bere e andare a spasso. Levatisi, la mattina, scendevano a dire ciascuno la sua messa, giù nella chiesa, spesso a porte chiuse, per non esser disturbati dai fedeli; poi se ne andavano in camera, a prendere qualcosa, in attesa del pranzo, a cui lavoravano, nelle cucine spaziose come una caserma, non meno di otto cuochi, oltre gli sguatteri. Ogni giorno i cuochi ricevevano da Nicolosi quattro carichi di carbone di quercia, per tenere i fornelli sempre accesi, e solo per la frittura il Cellerario di cucina consegnava loro, ogni giorno, quattro vesciche di strutto, di due rotoli ciascuna, e due cafissi d'olio: roba che in casa del principe bastava per sei mesi. I calderoni e le graticole erano tanto grandi che ci si poteva bollire tutta una coscia di vitella e arrostire un pesce spada sano sano; sulla grattugia, due sguatteri, agguantata ciascuno mezza ruota di formaggio, stavano un'ora a spiallarvela; il ceppo era un tronco di quercia che due uomini non arrivavano ad abbracciare, ed ogni settimana un falegname, che riceveva quattro tarì e mezzo barile di vino per questo servizio, doveva segarne due dita, perché si riduceva inservibile, dal tanto trituzzare. In città, la cucina dei Benedettini era passata in proverbio; il timballo di maccheroni con la crosta di pasta frolla, le arancine di riso grosse ciascuna come un mellone, le olive imbottite, i crespelli melati erano piatti che nessun altro cuoco sapeva lavorare; e pei gelati, per lo spumone, per la cassata gelata, i Padri avevano chiamato apposta da Napoli don Tino, il giovane del caffè di Benvenuto. Di tutta quella roba se ne faceva poi tanta, che ne mandavano in regalo alle famiglie dei Padri e dei novizi, e i camerieri, rivendendo gli avanzi, ci ripigliavano giornalmente quando quattro e quando sei tarì ciascuno. Essi rifacevano le camere ai monaci, portavano le loro ambasciate in città, li accompagnavano al Coro reggendo loro le cocolle, e li servivano in camera se le LL. PP. si sentivano male, o si seccavano di scendere al refettorio. (…)Distinguevansi i pranzi e i pranzetti, questi composti di cinque portate, quelli di sette, nelle solennità; e mentre dalle mense levavasi un confuso rumore fatto dell'acciottolio delle stoviglie e del gorgoglio delle bevande mesciute e del tintinnio delle argenterie, il Lettore biascicava, dall'alto del pulpito, la Regola di San Benedetto: «... 34° comandamento: non esser superbo; 35°: non dedito al vino; 36°: non gran mangiatore; 37°: non dormiglione; 38°: non pigro...» La Regola, veramente, andava letta in latino; ma al principino e agli altri novizi, aspettando che la potessero comprendere in quella lingua, la spiegavano nella traduzione italiana, una volta il mese. San Benedetto, al capitolo della Misura dei cibi, aveva ordinato che per la refezione d'ogni giorno dovessero bastare due vivande cotte e una libbra di pane; «se hanno poi da cenare, il Cellerario serbi la terza parte di detta libbra per darla loro a cena»; ma questa era una delle tante «antichità» - come le chiamava fra' Carmelo - della Regola. Potevano forse le Loro Paternità mangiare pane duro? E la sera il pane era della seconda infornata, caldo fumante come quello della mattina. La Regola diceva pure: «Ognuno poi s'astenga dal mangiare carne d'animali quadrupedi, eccetto gli deboli et infermi»; ma tutti i giorni compravano mezza vitella, oltre il pollame, le salsicce, i salami e il resto; e in quelli di magro il capo cuoco incettava, appena sbarcato, e prima ancora che arrivasse alla pescheria, il miglior pesce. Molte altre «antichità» c'erano veramente nella Regola: San Benedetto non distingueva Padri nobili e fratelli plebei, voleva che tutti facessero qualche lavoro manuale, comminava penitenze, scomuniche ed anche battiture ai monaci ed ai novizi che non adempissero il dover loro, diceva insomma un'altra quantità di coglionerie, come le chiamava più precisamente don Blasco. Articolo vino, il fondatore dell'Ordine prescriveva che un'emina al giorno dovesse bastare; «ma quelli ai quali Iddio dà la grazia di astenersene, sappiano d'averne a ricevere propria e particolare mercede». Le cantine di San Nicola erano però ben provvedute e meglio reputate, e se i monaci trincavano largamente, avevano ragione, perché il vino delle vigne del Cavaliere, di Bordonaro, della tenuta di San Basile, era capace di risuscitare i morti. Padre Currera, segnatamente, una delle più valenti forchette, si levava di tavola ogni giorno mezzo cotto, e quando tornava in camera, dimenando il pancione gravido, con gli occhietti lucenti dietro gli occhiali d'oro posati sul naso fiorito, dava altri baci al fiasco che teneva giorno e notte sotto il letto, al posto del pitale. Gli altri monaci, subito dopo tavola, se ne uscivano dal convento, si sparpagliavano pel quartiere popolato di famiglie, ciascuna delle quali aveva il suo Padre protettore. Padre Gerbini, la cui camera era piena di ventagli e d'ombrellini che le signore gli davano ad accomodare, cominciava il giro delle sue visite; Padre Galvagno se ne andava dalla baronessa Lisi, Padre Broggi dalla Caldara, altri da altre signore ed amiche. Tornavano all'ave, per entrare in chiesa, ma quelli che venivano un poco più tardi, o a cui doleva il capo, se ne salivano direttamente in camera; e non già per dormire, ché la sera, fino a tre ore di notte, quando si serravano i portoni, c'erano visite di parenti e d'amici, si teneva conversazione, molti Padri facevano la loro partita. Un tempo, anzi, per colpa di Padre Agatino Renda, giocatore indiavolato, c'era stato un giuoco d'inferno: in una sola sera Raimondo Uzeda aveva perduto cinquecent'onze, e più d'un padre di famiglia s'era rovinato; tanto che i superiori dell'Ordine, dopo aver chiuso un occhio su molte marachelle, avevano dovuto finalmente prendere qualche provvedimento. Era appunto allora venuto da Monte Cassino, in qualità di Abate, Padre Francesco Cosenzano, e per un po' di tempo, con l'autorità della fresca nomina, aiutato dai buoni monaci, che non ne mancavano, quel bravo vecchietto era riuscito a infrenare i peggiori; ma, poi, coll'andare del tempo, zitti zitti, a poco a poco, questi erano tornati alle abitudini di prima: giuoco, gozzoviglie, il quartiere popolato di ganze, i bastardi ficcati nel convento in qualità di fratelli - dei Padri - nuovo genere di parentela! E i timidi tentativi di resistenza dell'Abate gli avevano scatenato contro un'opposizione violenta. Don Blasco fu dei più terribili. Egli aveva tre ganze, nel quartiere di San Nicola: donna Concetta, donna Rosa e donna Lucia la Sigaraia, con una mezza dozzina di figliuoli: e l'Abate lasciava correre, sebbene fosse uno scandalo che tutte quelle mogli e quei figliuoli della mano manca, anzi di nessuna mano, venissero a udir la santa messa recitata dallo stesso monaco. Poi, tutte le mattine, egli scendeva in cucina, ordinando che mandassero i migliori bocconi alle sue amiche, e i giorni di magro si metteva sul portone per aspettar l'arrivo dei cuochi col pesce, in mezzo al quale faceva la sua scelta, ordinando: «Taglia un rotolo di questa cernia e portalo a donna Lucia!» E l'Abate lasciava correre. (...)C'erano stati sempre numerosi partiti, a San Nicola; perché, trattandosi d'amministrare un patrimonio grandissimo, e di maneggiare grossi sacchi di denaro, e di distribuire larghe elemosine, e di dar lavoro a tanta gente, e d'accordar case gratuite e posti non meno gratuiti al Noviziato, e d'esercitare insomma una notevole influenza in città e nei feudi, ciascuno ingegnavasi di tirar l'acqua al suo mulino (...)"

12 commenti:

romanaccia ha detto...

FDR- I Vicerè,

arcade fire ha detto...

"dove si manduca il ciel ci conduca"
regola benedettina variante catanese

Per me è più bello del Gattopardo

u'longu ha detto...

Un bel libro, non ha avuto la fortuna e il successo che meritava.
Mi piacciono molto i libri che entrano negli spaccati della società, religiosa e non, e ne raccontano i vizi e le rare virtù.
In sicilia e in meridione in genere, ancora ci sono i Vicerè, purtroppo per loro e meglio per noi, solo nel modo di concepire la società.
Per il resto sono stati uccisi dalla televisione, non certo dalla cultura.
Pure a Favazzina c'era qualcuno con la puzza sotto il naso, bastava solo non zappare la terra.

chinnurastazioni ha detto...

Ciao Romy, bisogna riformare i conventi: meno frati dentro, più frati fuori al servizio dei deboli, e non mangiare sempre quello che passa il convento, ma sedersi alla tavola dei poveri disgraziati. Vivo vicino al convento dei "Servi di Maria" e devo confermare che costoro, in maniera meno sfacciata, s'imbarcano alla stessa maniera di quelli descritti nel post.

chinnurastazioni ha detto...

Le istituzioni religiose sono in grave crisi: la chiesa viaggia verso la sua fine, se continua così con tutti gli scandali che la stanno attraversando, nel giro di qualche decennio perderà tutto il suo bacino di credenti. Troppa lontana dalla gente comune, è molto vicina ai ricchi e ai potenti del pianeta.

arcade fire ha detto...

"Non mangiare sempre quello che passa il convento" è troppo bella Nino.

romanaccia ha detto...

Sì, non so, forse sì. Sicuro Consalvo è meglio di Tancredi.
Nino. già si parlava di un convento in particolare. Ma pensavo convento nel senso di radunanza

romanaccia ha detto...

Mi sento così Sissy.

mariuzza ha detto...

Ciao aRmon. ma secondo te con tutte queste pietanze coscie di vitella, timballo di maccheroni in crosta di pasta frolla...olive imbottite ma il colesterolo di questi poveri fraticelli a quanto poteva essere?
Quest'estate a Favazzina ti propongo mia cara di cucinare una teglia di tali maccheroni che ne dici?
grazie, il romanzo non l'ho letto ma prima di diventare vecchia lo leggerò baci

u'longu ha detto...

Capo, ho sempre sospettato le tue simpatie per le imperatrici, pensavo preferissi Caterina, gli Asburgo non me l'aspettavo.

romanaccia ha detto...

Che posso fare è il fascino di Cecco Peppe.
Mariù cuciniamo quello che vuoi, pure lingue di pappagallo.

mariuzza ha detto...

Cicciu Pappinu vo riri aRmon