Benvenuti a Favazzinablog

Finalmente, dopo anni che ho in mente di farlo, ho deciso di aprire questo piccolo blog su Favazzina. L'obiettivo è quello di creare una comunità virtuale delle varie persone che negli anni hanno preso parte alla vita della nostra mitica Favazzina in modo che, almeno attraverso internet, possano sentirsi e non perdere i contatti, ma anche quello di scrivere e non dimenticare le varie storie che per tante estati ci hanno fatto morire dalle risate.
Se vi va di partecipare potete contattarmi su skype (mauro.fuca) o scrivere un commento anonimo al blog (scrivete in ogni caso la vostra email) così vi faccio diventare autori del blog e potrete darmi una mano.
Salutamu!
UGRECU

giovedì 22 novembre 2007

I "Cippi"

Come la maggior parte di voi sapranno era tradizione fino a pochi anni fà la vigilia di Natale accendere il falò sulla piazza della chiesa, e tutti i noi in quegli anni, giovani meno giovani ci siamo adoperati alla raccolta "ri cippi".
In questo episodio divertente, tratto sempre dal mio libro, voglio far conoscere ai più giovani come passavamo a quel tempo le serate. Quando dopo cena io e i miei amici andavamo a prendere i "i cippi" nei numerosi, allora, giardini di limoni.

.....Il Natale era alle porte e il paese parato a festa si preparava a celebrarlo. I bambini non riuscivano più a contenere la loro gioia, i regali, il vagheggiamento desiderato, non erano più un sogno. Anche tra noi ragazzi vi era molta animazione e ci adoperavamo affinché le vacanze fossero all'insegna del divertimento. Solo nelle persone anziane vi era indifferenza, d'altronde loro ne avevano viste troppe di miserie per avere ancora entusiasmo per il Natale. In quei giorni, come era consuetudine, andavamo negli orti a prendere i ceppi per il falò della Vigilia. Era una vecchia tradizione quella del falò, che si ripeteva ogni anno in paese e noi ragazzi eravamo orgogliosi di tenerla viva. Si cominciava dai primi di dicembre a raccogliere i ceppi, tutte le sere, nei numerosi orti che vi erano fuori del paese. I contadini durante tutto l'anno, tagliavano parecchi alberi di limone, che colpiti dai parassiti si ammalavano e inevitabilmente seccavano. I rami erano usati come legna da ardere, nelle vecchie cucine in muratura, ancora rimaste in alcune case, oppure per fare carbone, da utilizzare poi in inverno nei bracieri. I ceppi invece, venivano lasciati negli orti per il falò, e solo in caso di necessità i contadini li spaccavano, con i cunei e la mazza, per avere ulteriore legna. Durante il giorno andavamo negli orti, in ricognizione per individuare il punto esatto dove si trovavano i ceppi. Talvolta erano i contadini stessi ad indicarci il luogo, così la sera non perdevamo tempo a cercarli e soprattutto evitavano che noi arrecassimo danni alle colture. I ceppi raccolti venivano poi ammucchiati in un angolo della piazza e si continuava così, fin quando la pigna diveniva sufficientemente alta, tanto da ardere tutta la notte, fino all'alba. Si aspettava poi con impazienza la Vigilia di Natale, poiché il falò non era solo tradizione, ma diveniva un momento di aggregazione per tutto il paese e soprattutto era una serata di festa per i bambini. Si cominciava già dal mattino con i preparativi. Guglielmo, lo spazzino del paese, scendeva in spiaggia e trasportava con la carriola la sabbia da mettere sul selciato, in mezzo alla piazza, dove poi avrebbe arso il falò. Serviva la sabbia a proteggere le lastre di pietra dal fuoco, altrimenti si sarebbero crepate o addirittura sbriciolate per il forte calore. Ma tutto ciò sarebbe stato vano se il tempo non fosse stato clemente. Era importante soprattutto che non piovesse o vi fosse vento, altrimenti non avremmo potuto accendere il falò. La cena nella quale, come era consuetudine, non mancavano mai le crespelle, il baccalà fritto, i broccoli e per dolce il torrone, era consumata in fretta da noi ragazzi, ed eravamo i primi ad arrivare in piazza. E in preda ad una eccitazione crescente, aspettavamo con impazienza il momento in cui i giovanotti avrebbero acceso il falò. Poi piano, piano, tutta la gente del paese, o buona parte di esso, richiamata dal tocco delle campane, arrivava per la messa di mezzanotte e la chiesa si riempiva completamente. E prima che il prete desse inizio alla funzione, i più esperti finalmente appiccavano il fuoco. Ardevano i ceppi e le fiamme si levavano in alto vibranti, e le scintille sprizzavano vivaci e svolazzavano nel buio. I vecchi stavano raccolti accanto al fuoco e si scaldavano, per attenuare il tremito perenne, che correva per le ossa indurite oramai dal gelo della vecchiaia. I fanciulli invece, si rincorrevano festanti intorno al falò, coi visi illuminati dal forte chiarore che emanava dalle braci. Mentre i giovani a turno alimentavano il fuoco e lo tenevano vivo aspettando pazienti che nascesse il Bambino. Il prete subito dopo la mezzanotte, usciva dalla chiesa seguito dai fedeli, reggendo tra le mani un canestro di vimini, nel quale vi era tra la paglia, una statuetta raffigurante Gesù Bambino. La tradizione voleva che il fuoco servisse a scaldare il neonato, per cui al momento della celebrazione era motivo d'orgoglio per i giovani far trovare il fuoco al massimo dello splendore. Il prete insieme ai fedeli, che intonavano "Tu scendi dalle stelle", faceva un giro intorno al falò, poi si fermava a benedire il fuoco e finita la funzione rientrava in chiesa. Da quel momento il falò, che prima era considerato sacro e apparteneva solo al Bambino, diveniva bene comune. Dopo la cerimonia religiosa, le donne si recavano a casa in tutta fretta e ritornavano nella piazza coi bracieri. Si avvicinavano al fuoco e con l'aiuto di una paletta, tiravano su le braci e riempivano i bracieri fino all'orlo. Dovevano riscaldare la casa tutta la notte, mentre con i familiari e i parenti avrebbero giocato a tombola. Poi la gente, dopo aver sostato ancora un attimo accanto al fuoco, ad immagazzinare un po’ di calore, piano, piano abbandonava la piazza per riunirsi ai parenti o agli amici e il falò rimaneva ad ardere fino all'alba. E la notte era rischiarata dal forte chiarore e nel silenzio sacro si udiva solo il crepitare del fuoco. E quando sul paese s'avanzava pigramente il giorno, sulla piazza, rimaneva dei ceppi solo la cenere a ricordare che, ancora una volta, era arrivato il Natale.

...Quella sera cenai in fretta e altrettanto in fretta uscii di casa. Ero in ritardo, dovevo trovarmi con i miei amici in piazza per andare a prendere i ceppi. Saremmo andati negli orti alla Favagreca, dopo il cimitero, dove sapevamo ve ne erano in abbondanza. La luna era apparsa silenziosa e brillava alta nel cielo, la sera era serena e al gran chiarore le case si tingevano d'argento. Le strade erano illuminate a giorno e la luna scorreva sugli alberi dilatando le ombre. Non vi era bisogno di luci artificiali quella sera, per muoversi negli orti tra i limoni. In piazza oltre i miei soliti amici, Peppe, Enzo e u Longu, vi erano degli altri ragazzi che si erano uniti a loro.
«Era ora!» mi disse Peppe vedendomi arrivare.
«Ho fatto più in fretta che potevo, mio padre è tornato tardi dall'orto e ho appena finito di cenare» mi giustificai.
«Bene! Andiamo!» disse Enzo e rivolgendosi ad uno dei ragazzi chiese «Hai portato la pila?»
Questi rispose di si con un cenno della testa e all'affermazione fece seguire il gesto, tirò fuori di tasca la pila, l'accese e diresse il fascio di luce in un punto buio della piazza. Rapidamente ci avviammo e lungo la strada ognuno di noi si mise a parlare col compagno che gli era più vicino. Io ero accanto a Peppe e gli chiesi «Dov'eri questo pomeriggio? Come mai non sei venuto al circolo a giocare a carte?»
«Ho dovuto aggiustare l'impianto elettrico a casa di mia zia»
Sebbene lui non fosse un elettricista, si intendeva ugualmente di corrente e quando in una casa vi era un guasto, sovente la gente in paese lo chiamava per ripararlo.
Talvolta Peppe mi portava con se nella veste di aiutante, ma più che dargli una mano ci andavo per fargli compagnia, poiché di elettricità ne capivo poco o niente. Inoltre avevo una paura folle della corrente, per via di varie scosse che avevo preso da bambino, toccando dei fili scoperti inavvertitamente.
Man mano che ci avvicinavamo al cimitero, il tono della nostra voce si affievoliva, si abbassava sempre di più, poi come se si fosse stabilità un'intesa, contemporaneamente tra noi scese il silenzio. Avevamo rispetto dei morti e forse, qualcuno di noi, anche un po’ di paura e ci pareva di turbare con le nostre voci il loro sonno eterno. Una sorta di mistero gravava su quel luogo.
Le credenze della gente avevano creato fantasmi, che popolavano il cimitero e vagavano di notte. E anche noi eravamo cresciuti con quelle superstizioni, che le persone anziane e soprattutto i nonni ci avevano inculcato coi loro racconti, nelle sere d'inverno, seduti intorno al focolare. Passammo davanti al cancello quasi trattenendo il respiro ed io fissai dritto davanti a me, non volevo guardare all'interno del cimitero. Ma mentre lo superavo diedi uno sguardo di sfuggita e vedendo i lumi sulle tombe e l'immagine dei defunti che mi fissavano, fui percorso da un brivido per tutto il corpo. Poi appena oltrepassato il cimitero, quasi come a stemperare la paura riprendemmo a chiacchierare allegramente e in breve arrivammo nell'orto dove vi erano i ceppi. Scrutammo intorno e rimanemmo un attimo silenzio per assicurarci che non vi fosse il contadino e, non udendo alcun rumore, ci accingemmo a scavalcare il muro di cinta per entrare nell'orto. I pezzi di vetro posti in cima al muro per scoraggiare i ladri, mandavano dei tenui luccichii, riflettendo i raggi della luna. Bisognava perciò fare molta attenzione nell'arrampicarsi per evitare di ferirsi. Con molta cautela superammo l'ostacolo e ci lasciammo cadere all'interno. Il buio era piuttosto fitto sotto gli alberi, nonostante la luna piena, e rimanemmo un attimo immobili per abituarci all'oscurità. Poi sbirciando attentamente, ed anche con l'aiuto della pila, scorgemmo numerosi ceppi sui cigli dei muri a secco. Li tirammo su da terra e uno alla volta li buttammo oltre il muro, sulla strada. Quando il numero ci sembrò a sufficienza, abbandonammo l'orto e rapidamente ritornammo anche noi sulla strada. Eravamo sudati e visibilmente agitati, poiché tutto il lavoro lo avevamo svolto in modo frenetico. I contadini in quelle occasioni si dimostravano abbastanza tolleranti, ma era sempre meglio non farsi sorprendere negli orti. Gli alberi di aranci e di mandarini, in quel periodo, erano carichi di frutta, ed era difficile per noi resistere alla tentazione e non coglierne alcuno. Questo i contadini lo sapevano e più di una volta ci eravamo trovati faccia a faccia con loro. Eravamo fermi a prendere fiato quando ci accorgemmo che mancava u Longu.
«Dove minchia è?» domandò Enzo, chiedendolo più a se stesso che a uno di noi.
«Per me è ancora dentro» risposi
«Longu, Longu. Dove sei?» chiamammo con voce sommessa
«Sto arrivando!» la sua voce ci giunse da dietro il muro e subito dopo apparve la sua faccia.
«Dove ti eri cacciato?» gli chiesi .
Accennò un sorriso furbo e con la sua solita flemma scavalcò il muro e si lasciò cadere accanto a noi.
«Non ne potevo più, e ho lasciato un ricordino sotto un albero di mandarini»
«Sei sempre il solito, potevi almeno coprirla! Adesso il contadino pensa che siamo venuti a rubargli la frutta» lo rimbrottai.
«Chi se ne frega !» rispose. U Longu era fatto così. Ci caricammo i ceppi spalla e ognuno di noi scelse quello da portare, in virtù della sua forza fisica. Quelli più pesanti li portavamo in due, talvolta anche in tre, addirittura alcuni estremamente pesanti, li trascinavamo legandoli con le funi. Col nostro carico gravoso ci avviammo con la massima sollecitudine e arrivammo in piazza stremati dalla fatica. Avevamo ancora un viaggio da fare, prima di tornarcene a casa, ma Peppe si rifiutò di seguirci.
«Mi dispiace ragazzi, me ne vado a letto, domattina mi devo alzare presto» Tentammo di fargli cambiare idea, di convincerlo a venire ancora con noi a darci una mano, ma fu irremovibile. Senza di lui ritornammo alla Favagreca e passammo di nuovo davanti al cimitero, e ancora una volta ci imponemmo il silenzio. Poco distante i ceppi stesi sulla strada assumevano al chiaro di luna forme mostruose. Arrivati sul posto ci ricaricammo i legni sulle spalle e riprendemmo la strada del ritorno. Procedevamo in fila, ad una certa distanza uno dall'altro, per non infastidire chi seguiva ed evitare che inciampasse. Eravamo intanto giunti al cimitero e i primi avevano appena superato il cancello, quando all'improvviso, udimmo provenire dall'interno delle grida strazianti e dei rumori infernali, amplificati dal silenzio di tomba che vi era in quel luogo. I capelli mi si rizzarono per lo spavento e lanciai un urlo prolungato, buttai il ceppo e cominciai a correre all'impazzata. Anche gli altri in preda al panico fecero come me, tranne Ciccio, che seppure a fatica continuava a correre col ceppo sulle spalle.
Avevamo percorso all'incirca un centinaio di metri quando sentimmo una voce dietro di noi che intimava «Fermatevi! Fermatevi!». Rallentammo la corsa e ci voltammo a guardare, increduli vedemmo Peppe che ci veniva incontro, anche lui di corsa.
«Ma non eri andato a casa?» gli chiesi alquanto stupito, ma subito mi sovvenni «Che stronzo, eri tu nel cimitero»
«Si! Ero io, ho voluto farvi un scherzo» ammise sorridendo
«Bello scherzo del cazzo, c'è la siamo fatta sotto» lo aggredii un po’ infuriato. Con Peppe non riuscivamo mai ad arrabbiarci.
«Voi! Immaginatevi io, da solo lì dentro, ero mezzo morto di paura»
«Quando sei entrato?» gli chiese u Longu

«Vi ho seguiti per un po’ da lontano, poi mentre voi prendevate i ceppi ho scavalcato il cancello e mi sono nascosto dietro al muro»
«Hai avuto un bel coraggio» gli disse ammirato uno dei ragazzi.
«Perché sapevo che eravate lì vicino, ma quando vi ho visto scappare, non c'è l'ho più fatta a stare nascosto e sono scappato anch'io»
«Come sei riuscito a fare tutto quel baccano?»
«Mi ero procurato due lattine e le ho sbattute una contro l'altra, inoltre mi sono messo a urlare come in ossesso»
Tornammo indietro e riprendemmo i ceppi che avevamo abbandonato nella corsa e, con passo spedito, proseguimmo. Pure Peppe ci aiutò, e durante il tragitto seguitò a chiederci con evidente soddisfazione se davvero ci eravamo spaventati. Chi più, chi meno affermò che un po’ di paura se l'era presa. Solo Enzo non voleva ammetterlo e spavaldo gli disse «Guarda che io non mi sono spaventato affatto» E Peppe rivolgendosi verso di noi esclamò «Minchia, però se correva»
E tutti scoppiammo a ridere.

1 commento:

Malumbra ha detto...

Se ci penso la mia generazione a favazzina è l'ultima che ha potuto vivere alcune tradizioni ormai perse (per sempre!!?) Anche io sono andato a raccogliere i cippi, l'ultima volta penso 15 anni fa!
Oggi questo paese sembra un palcoscenico sul quale è rimasta la scenografia senza i personaggi..