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UGRECU

lunedì 2 marzo 2009

Un sogno chiamato America

“Liberamente tratto dalla storia di un emigrante siciliano che, come mio nonno e tanti altri come lui, si avventurarono giovanissimi nell’America degli anni venti”

Aveva sedici anni Mico Vilardi quando decise per la prima volta di andare in America.
Era già un bravo picciotto e prometteva davvero molto bene e così un suo parente che aveva fatto i piccioli ed era tornato da poco a Favazzina gli disse che se voleva l’avrebbe fatto andare a Novaiocche da certi suoi amici che l’avrebbero accolto a braccia aperte, poiché continuavano a scornarsi con le altre famiglie e avevano bisogno di gente ambiziosa, pronta a tutto. Comunque per evitare rischi avrebbe dovuto viaggiare su una di quelle navi che trasferivano i clandestini per conto di Cosa Nostra.
Dopo tre giorni trascorsi in una baracca costruita su uno sperone di roccia a picco sul mare, dalle parti di Palmi, dove si preparavano le spedizioni verso l’America, l’imbarcazione sulla quale Mico avrebbe viaggiato, si ancorò a circa un chilometro dalla riva. Come dal nulla una folla di uomini, donne e bambini, che erano stati prelevati da diversi paesi della zona, comparve all’improvviso da tutte le direzioni. I nuovi arrivati si sistemarono sulla spiaggia, attorno ai sacchi, alle valigie di cartone e ai bauli pieni di tutto quello che meritava di essere trasportato oltre l’oceano. Stavano per lo più raccolti in gruppetti, a seconda del dialetto natio, ma a unire gli uni agli altri era ciò che al giudizio dell’America li rendeva indesiderabili, cioè non sapevano né leggere né scrivere e le autorità statunitensi, a quel tempo, avevano deciso di accettare soltanto gli acculturati, magari delinquenti, ma non analfabeti. Se costoro perciò volevano andarci, se pensavano di avere diritto ad inseguire un sogno, erano costretti a rivolgersi agli uomini di rispetto, ai mafiosi, che su quel sogno campavano.
Alle prime luci dell’alba, una decina di barche effettuò il trasbordo degli emigranti sulla nave, una carretta sgangherata. Le donne e i bambini vennero condotti nella stiva, gli uomini nella camerata accanto alla sala macchine. La stiva era fredda e umida, la camerata invece ribollente di calore, per cui le donne e i bambini erano costretti a coricarsi vestiti, mentre gli uomini quasi nudi, su dei pagliericci stesi sul pavimento di entrambi i locali. Le latrine si trovavano sul lato opposto, a poppa, ma la notte pochi raggiungevano le latrine e si liberavano dei loro bisogni lì tra i pagliericci. Per mangiare si recavano in coperta, dove potevano cucinare, o si arrangiavano con le provviste già preparate, pane casereccio, olive, peperoni e melanzane sott’olio, arance e grandi pezze di formaggio. Dopo il pasto subentrava il rito dello spidocchiarsi e le donne si avventuravano con le mani tra i capelli dei figli, mariti e fratelli, i quali sdraiati e rilassati si godevano la liberazione che durava ore intere. Poi finito con loro, procedevano a liberarsi vicendevolmente dei pidocchi.
Sulla nave non c’erano né medici né medicine, e i più deboli, quasi tutti vecchi e bambini, morirono durante il viaggio. Le cerimonie d’addio erano meste, senza prete ne una benedizione e i cadaveri coperti da un lenzuolo venivano gettati in mare tra i lamenti dei loro cari. La lunghezza del viaggio, la noia e il vivere ammassati, sollecitavano il tarlo del gioco d’azzardo e le partite a zecchinetta aumentavano in continuazione e molti ci rimettevano i soldi risparmiati con fatica per affrontare le insidie iniziali del nuovo mondo.
Mico se ne stava in disparte, sia per ignoranza che per disinteresse, ma era sempre all’erta e coglieva ogni occhiata indagatrice a lui indirizzata.
Quando ormai la tensione e i litigi erano arrivati al culmine, giunse la notizia che a breve sarebbero approdati. Ciascuno preparò il proprio bagaglio e si accucciò sul ponte in attesa. La nave giunse in prossimità della costa che era buio, era stato calcolato che giungesse la sera per evitare di essere bloccati. Ma non era Ellis Island la loro meta.
Fu gettata l’ancora e la nave venne circondata da barche e barconi, i passeggeri si misero in fila e come in processione si diressero verso il parapetto dove i marinai avevano provveduto a gettare sulle fiancate, scale di corda. Tra bestemmie e imprecazioni uomini, donne e bambini con sacchi ceste e valige scivolarono dentro ai barconi, ma una volta allontanatosi, vennero scaricati ad una cinquantina di metri dalla riva e furono costretti a raggiungere la spiaggia sguazzando in mezzo all’acqua. Sulla costa ad attenderli vi erano dei camion dell’organizzazione e i clandestini vennero fatti salire alla svelta, ciascuno verso la salvezza, verso il proprio futuro, la propria libertà.
Fu così che Mico Vilardi assieme ad altri emigranti, arrivò la prima volta in America, la terra della libertà, il posto dove tutto può avvenire dove, gli avevano detto, non esiste un sogno che non possa essere realizzato.

6 commenti:

chinnurastazioni ha detto...

Ciao Mimmo ho due Applique fotografiche per al'argomento EMIGRANTI:...per gentile concessione della rete.

u'longu ha detto...

Bella Spusidda, non sapevo di queste avventure adoloscenziali di nostro nonno, da noi mai conusciuto.
Vuol dire che ce l'abbiamo nel sangue l'emigrazione, un pò meno avventurosi, ma alla scoperta del mondo

arcade fire ha detto...

Bella Spus, nommi ndi spirdimu chi simu tutti emigranti e comu pi ogni cosa ci sunnu chiddi bboni e chiddi tinti

Spusiddha ha detto...

Mario era quello che volevo mettere in evidenza, non dimenticarci chi eravamo e chi siamo.
Le foto caro N. mostrano drammaticamente quello che ho tratto da una storia di un emigrante siciliano.
Longu lo zio Peppino mi ha detto che il nonno il primo viaggio verso l'America lo fece addirittura a quattordici anni!

u'longu ha detto...

Mi sa che a zio Peppino piaccia la mitologia, comunque tutto può essere, poi se qualcuno scompare, come il nonno, lasciando tre figli piccoli e una moglie, più che mitologia la chiamerei in un altro modo

mariuzza ha detto...

triste triste ma sicuramente vera.